Niente mi ha colpito in maniera particolare a Courmayeur. Anche il nome è impossibile da scrivere sulla tastiera senza sbagliarsi almeno un paio di volte. Io ci ho provato a trovare qualcosa di positivo in questo paese della Valle d’Aosta, ma non ci sono riuscita.
Sarà che la via principale è un pugno in un occhio, con i suoi palazzi anni Sessanta e i negozi di Gucci, Hermès, Balenciaga, Rolex e via dicendo. O sarà che la proprietaria dell’albergo non ha ben chiaro il concetto di ospitalità. Il mio primo impatto con la città è il cartello sulla porta a vetri dell’hotel con su scritto: “Sono in paese, torno subito”.
Anche la parola subito qui ha un altro significato, dato che devo aspettare mezz’ora prima che la cara vecchietta arrivi dal supermercato. E non è un B&B dove vale tutto, anche aspettare i padroni di casa sotto il sole, ma un hotel a “conduzione famigliare”. Questo concetto invece è stato applicato alla lettera: dopo avermi mostrato una stanza molto spaziosa, decisamente fuori moda e parecchio maleodorante, la proprietaria spiega senza tanti giri di parole che il giorno dopo la stanza deve essere lasciata alle otto del mattino. “Domani si sposa mio nipote,” dice, come se questo fosse un motivo sufficiente per mandare via all’alba un gruppo di venti persone da un albergo. “Ma con calma, eh.”
Questo forse ha influenzato il mio giudizio sulla città valdostana. Il lato positivo però l’ho trovato: lasciando l’albergo la domenica mattina alle otto ho la possibilità di trovare qualcosa per il quale vale la pena di arrivare fino a Courmayeur (avendo cura però di non fermarsi più dello stretto necessario). Lasciamo anche perdere il fatto che sono a piedi, sempre per via dell’approccio innovativo al concetto di gestione famigliare dell’hotel.
Ma se avessi avuto la macchina non sarei mai capitata nella frazione di Entrèves, a pochi chilometri dal centro di Courmayeur. Non ho una bottiglia d’acqua con me perché in camera non c’è il minibar e alla reception non c’era anima viva, quindi la prima cosa che faccio è fiondarmi sulla fontana dalla quale sgorga acqua di montagna. Fresca e trasparente, al punto che mi viene l’impulso di tuffarmi nell’abbeveratoio.
Subito dopo la fontana si snodano le vie strette e lastricate della minuscola frazione, con le sue vecchie case di pietra, i pesanti portoni di legno, i davanzali decorati di fiori. Sembra quasi una città fantasma: le uniche persone sono un bambino insieme al nonno, ma forse le vie sono troppo strette per permettere alle auto di passare.
Attraverso il paese con calma, fermandomi a fotografare un angolo, una finestra, l’insegna di un ristorante in cui servono piatti a base di formaggio valdostano. Cercando di non farmi notare, sbricio nella direzione del nonno e del bambino: entrano nel cortile di un hotel, l’Auberge de la Maison: è una casa in legno e pietra, circondata da un prato dove sono posizionate alcune sdraio. Prendo nota per la prossima volta: se mai dovessi tornare qui, la stanza la vorrei in questo hotel.
Mi lascio Entrèves alle spalle, pronta ad affrontare l’ultima fatica: la salita che porterà alla frazione di Pontal. Perché anche se Courmayeur non ha attirato in alcun modo le mie simpatie, è pur sempre sul suo territorio comunale che si trova il Monte Bianco. Poco meno di un chilometro e arrivo alla partenza della Skyway, la funivia che sale fino al massiccio della montagna più alta d’Europa. Ero pronta ad affrontare code chilometriche sotto il sole di luglio, ma non c’è quasi nessuno.
Pago il biglietto: 48 euro, non pochi, ma spesi bene. Dopo qualche minuto sono sulla funivia che percorre il primo tratto, salendo dai 1300 metri di Pontal fino ai 2173 di Pavilon du Mont Fréty. Siamo appena a metà strada, perché per arrivare fino in cima bisogna prendere una seconda funivia. Tuttavia è meglio fare una breve tappa a Mont Fréty, soprattutto per abituare il corpo alla differenza di altitudine e di temperatura.
Ne approfitto per fare una passeggiata nel giardino botanico alpino Saussurea, fondato nel 1984 con lo scopo di preservare la flora alpina del Monte Bianco. Situato a 2175 metri di altezza, è uno dei giardini botanici più alti di tutta Europa. Deve il suo nome a Horace Bénédict de Saussure, promotore della prima ascesa al Monte Bianco, avvenuta nel 1786.
Non mi fermo molto perché il tempo in alta montagna può cambiare repentinamente e temo l’arrivo delle nuvole. Torno alla stazione e prendo la seconda funivia, quella che sale lungo l’ultima parte del percorso. Oltre i vetri della cabina, che ruota su se stessa offrendo una visuale a 360 gradi, il paesaggio cambia metro dopo metro: il verde che dominava nel giardino botanico viene rimpiazzato dalla roccia grigia e dal ghiaccio bianco. In dieci minuti si sale di 1290 metri e in alcuni punti i cavi di acciaio che reggono la funivia sembrano correre paralleli alla parete rocciosa, al punto che ho l’impressione di sfiorare la montagna.
Arrivata a Punta Helbronner, i 3466 metri di altitudine si fanno sentire. Faccio fatica ad affrontare i pochi scalini che dalla stazione a forma di cristallo conducono alla terrazza panoramica circolare: l’aria rarefatta fa sì che i battiti del cuore aumentino al minimo sforzo. Quando arrivo in cima mi gira un po’ la testa, e non so da che parte guardare: tutt’intorno ci sono montagne, punte, ghiacciai e cime. I colori sono il bianco della neve e il blu del cielo. Sotto di noi, oltre la barriera della terrazza, vedo la sagoma del Rifugio Torino. Ci si arriva anche a piedi, salendo con chiodi e ramponi lungo ghiacciai e crepacci, in poco più di sette ore.
Alle mie spalle svetta il Dente del Gigante, con la sua forma aguzza. Al di là della cima dell’Aiguille du Midi si vedono il Cervino e il Monte Rosa. È una sensazione inebriante, dovuta probabilmente all’aria rarefatta e all’escursione termica, con quasi 30 gradi a Pontal e un grado sotto zero qui a Punta Helbronner.
Mi viene in mente tutta una serie di espressioni per descrivere la scena: c’è una vista mozzafiato, sembra di toccare il cielo con un dito, sono al settimo cielo… Sicuramente questi modi di dire sono stati coniati da qualcuno che era stato proprio qui, sul tetto dell’Europa.
Abito in un piccolo paese di provincia e lavoro in un ufficio in una stradina secondaria. Immagino però di vivere a Notting Hill, di lavorare a Williamsburg, di prendere un aperitivo a Montmartre e di cenare a North Beach. E magari di fare shopping sulla Fifth Avenue. Non so cucinare, ma adoro mangiare. Mi piace conoscere un posto nuovo attraverso il suo cibo e le sue tradizioni culinarie. Non riesco a fare a meno di raccontare quello che ho scoperto agli altri.
ti auguro di visitare courmayeur con un animo dofferente
Chissà, può darsi che cambierò idea in futuro, ma in occasione di questo viaggio c’è da dire che purtroppo non mi ha colpita in maniera positiva per i motivi di cui ho scritto. Ma sono sicura che ci possano essere delle cose che io non ho colto e che invece piacciono ad altre persone. Come un po’ tutte le città del resto: certe ci fanno innamorare e certe altre ci lasciano indifferenti!