Ora vi racconto una storia. Cominciamo da Dakhla. Perché mi trovo lì non importa, vi basti sapere che Dakhla è la capitale del Sahara Occidentale, una regione contesa tra Mauritania, Algeria e Marocco, ma ufficialmente sotto il controllo di quest’ultimo. C’è anche una movimento indipendentista chiamato Polisario che negli ultimi tempi ha richiamato l’attenzione dell’ONU e la conseguente, tradizionale missione di ispezione che probabilmente non porterà a nulla.
La meta è Genova, ma forse è meglio avanzare per gradi.
La meta, dicevamo, è Casablanca. Ci si potrebbe arrivare in aereo, ma io ovviamente ho scelto il pullman. Sulla carta sono 28 ore, ma una scusa per farle diventare 30 la si trova sempre. A cominciare dalla mia strategica pianificazione del viaggio. Tradotto: mi faccio accompagnare alla stazione sbagliata.
Dopo aver chiesto disperatamente ai passanti se sapessero perché la stazione da cui sarei dovuto partire fosse tragicamente deserta – passando dall’arabo, al francese, a un maccheronico spagnolo – un ragazzo belga originario di Agadir mi carica in macchina, comincia a chiamare al telefono il cugino, il vicino di casa, l’ex compagno di scuola, il cognato, fino a scoprire che c’è un’altra stazione da cui partono le linee notturne. Mi scorta fino al mio autobus, parcheggiando davanti ad esso per essere sicuro che non parta senza di me.
Il mio ingresso sul mezzo scatena subito l’indignazione dell’autista più giovane, che non si trattiene dall’indicarmi l’orologio sul cruscotto dove fa mostra impietosa di sé il mio ritardo. L’autista più anziano, invece, si limita a chiedermi se ho fatto le fotocopie del passaporto. Ovviamente no.
Le fotocopie servono per agevolare gli innumerevoli controlli ai posti di polizia disseminati sull’unica strada che attraversa con audacia questo angolo di deserto. Gli occidentali qui sono sempre visti con sospetto, soprattutto se giornalisti. Ne faccio una decina in una copisteria che per oscure ragioni è ancora aperta alle undici e mezza di sera, e finalmente partiamo.
Questa volta la nostra scusa per allungare il viaggio di un paio d’ore è un incidente all’altezza di Laayoune. La fretta eccessiva di un camionista che portava un carico di zucchero si è scontrata contro un’auto che veniva in direzione opposta. Le condizioni dei due abitacoli lasciano poche speranze sullo stato di salute dei due guidatori, ma la tragicità dell’evento non trattiene i passeggeri del nostro e di altri innumerevoli veicoli dall’affacciarsi sulla scena come ragazzini in cerca di una foto del proprio cantante preferito.
Quando i mezzi di soccorso riescono finalmente ad arginare la valanga di zucchero che inonda la strada, ripartiamo. Nessuno si lamenta, “ritardo” non è nemmeno il termine adatto per una condizione fisiologica delle tratte che attraversano questa remota regione del mondo arabo.
A Casablanca ho agio a sufficienza per dormire un’ultima notte nel mio appartamento. Il giorno dopo raccolgo le mie cose in una turbine sconsiderato di fretta e disorganizzazione che sicuramente culminerà nel dimenticare qualche reperto fondamentale tra gli scatoloni che ospitavano i miei strumenti di lavoro. La sera stessa un altro pullman mi raccoglie – questa volta senza parentesi comiche – per condurmi a Tangeri, dove alle undici di mattina dovrebbe partire la mia nave per Genova.
Come dicevo, la mia nave per Genova parte da Tangeri alle undici di sera. Per fortuna l’arco di dodici ore che sottolinea la mia trascendentale incapacità di pianificazione è in mio favore, e mi consente di girovagare un po’ per questa città di pirati e mendicanti in cerca di un ristorante in cui consumare il mio ultimo pasto marocchino.
Mi preparo a partire con largo anticipo, talmente largo da inglobare con urgente sufficienza l’ennesimo carpiato di un viaggio che non sembra volermi concedere alcuna occasione per annoiarmi.
I tassisti marocchini sono una categoria professionale dal carattere esoterico, nel senso che per capire dove ti porteranno ti puoi rivolgere giusto agli spiriti. Dopo aver ripetuto come un ritornello che la mia destinazione è Tangier Med, da dove partono le navi dirette in Italia, il mio autista mi scarica al porto cittadino, da dove partono le navi dirette a Tarifa. Ho giusto il tempo per arrivare con un altro taxi al mio reale porto di imbarco prima che chiudano le registrazioni dei passeggeri.
Finalmente sono in fila con una moltitudine di navigatori pronto per affrontare le ultime procedure burocratiche. Peccato che non siamo diretti alla stessa nave. Quando i miei compagni di attesa scoprono la mia destinazione, la folla si apre altruisticamente come le acque del Mar Rosso e io, novello Mosé, vengo proiettato quasi inconsapevolmente verso la dogana.
Il poliziotto di fronte a me raccoglie il mio passaporto, lo sfoglia senza entusiasmo e me lo restituisce.
“È tutto? Posso andare?”
“Yalla, yalla!”, che in arabo vuol dire “togliti dai piedi”.
Il bus navetta mi porta al molo, ma prima di imbarcarmi c’è un ultimo controllo del passaporto.
“Dov’è il timbro di uscita?”
“Non c’è, non mi hanno messo nessun timbro.”
Quando in Marocco un poliziotto ti yalla fuori dalle scatole e la tua nave sta per partire, non fai domande, raccogli il passaporto e ti metti all’inseguimento del tempo perduto.
“Devi tornare indietro.”
“Ma almeno c’è un’altra navetta?”
“No, devi correre. Sbrigati.”
Con lo zaino da 70 litri sulle spalle e lo zainetto-porta-cose-che-non-sapevo-dove-infilare sul petto mi metto a correre attraverso tutto il porto di Tangeri, finché davanti a un cancello un altro poliziotto mi ferma e mi avvisa: “Non puoi passare a piedi, aspetta la navetta.”
La navetta che non c’era mi raccoglie mentre, per la prima volta in sei mesi, inveisco contro il Marocco e la sua stramaledetta flemma all’aroma di cannabis. Attraverso come un fendente passeggeri di navi sconosciute che, a onor del vero, mi offrono senza esitazione il poco spazio a loro disposizione. Raggiungo la dogana, inveisco contro il poliziotto che appone il timbro con la stessa aria stanca con cui poco fa me lo aveva negato.
Ripasso per il controllo bagagli dove trovo un ispettore indispettito dal mio fare da “occidentale arrogante” e, a costo di perdere la nave, dedico cinque minuti a insultarlo pubblicamente usando le poche parole arabe nel mio vocabolario capaci di veicolare sdegno e ira. Inspiegabilmente, dieci minuti dopo non sono in galera ma sulla mia nave diretta a Genova.
Le prime parole in italiano che mi sento rivolgere in viva voce da marzo provengono da una graziosa ragazza dall’accento napoletano che mi indica la sala delle poltrone – la soluzione economica per chi non può permettersi la cabina – e io mi trattengo con fatica dal proporle di sposarmi.
Il viaggio via mare da Tangeri a Genova richiede circa 60 ore – sulla carta erano 48 – e mentre scrivo questa confessione di viaggio sono quasi trascorse tutte. Nel capoluogo ligure, in cui giungerò domani mattina, mi attende una ricca colazione e l’abbraccio di un volto amico.
Il terribile viaggio quasi concluso non è riuscito ad eclissare del tutto la malinconia che provo nel lasciare il Marocco, ma ancora una volta l’Italia mi appare come la meta più meravigliosa che il mio schizofrenico percorso potesse regalarmi.
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.