La prima parte del Cammino di Celestino la trovate qui.
23 luglio Decontra – Fonte Tettone. Salita 1168 m – lunghezza 15,09 km
Oggi l’eremo più intrigante, quello che mi ha fatto decidere per il Cammino di Celestino, ma prima bisogna arrivarci.
Da Decontra si sale tra pascoli rigogliosi ottenuti con un lavoro improbo e secolare di bonifica come testimoniano le decine di cumuli di pietre che punteggiano tutta l’area, un cespo d’erba per ogni pietra tolta dal terreno, due brucate di pecora, eppure una volta lo si faceva, tempi duri.
Per noi è dura solo la salita fino al primo abbeveratoio, una lunga vasca di acqua fresca per mucche e pecore che non vediamo e per lupi e orsi che vorremmo/temiamo di vedere, un sorso d’acqua, un attimo di respiro e su lentamente verso Piana Grande della Majelletta, per ora nessun incontro, né uomini né animali.
Sul bordo del vallone dell’Orfento, l’eremo è da qualche parte qui sotto, il primo sentiero di accesso è chiuso, peccato c’era un famoso passaggio aereo su cengia, meno male dice mio fratello, ma più avanti il secondo è buono, discesa da downhill in faggeta, io mi fermo qui dice lui, le ultime decine di metri sono su balzi e gradoni esposti, siamo venuti fin qui per l’eremo, figurati se mi fermo.
Il famoso eremo di S. Giovanni all’Orfento è un bunker scavato in una parete a strapiombo di calcare bianco, scie nere di acqua piovana cadono dall’alto, per entrare una scaletta incisa nella roccia verticale, un passaggio da equilibristi senza sicurezza, un cartello ammonitore – rischio di caduta – provo i primi tre gradini, sono solo non mi fido, scendo e lo osservo rassegnato dal basso, il mio eremo è lì ma non ci arrivo, sono come la volpe della famosa favola di Esopo – comunque le foto da lontano sono più belle – e non mi decido a risalire.
Pietro e alcuni suoi seguaci hanno vissuto in questo rifugio trogloditico per una decina di anni, e devo dire che se volevano isolarsi dal mondo questo era il posto giusto, a casa di Dio mi verrebbe da dire, e se volevano pregare nella natura come S. Francesco di nuovo questo era il posto giusto, sul ciglio di una valle profonda e misteriosa, di fronte una foresta che sale compatta fino ai pascoli d’alta quota, su verso il cielo le cime della Majella dove chiazze di neve resistono fino alla piena estate, luce mistica e silenzio monacale.
Ma di cosa vivevano? mi sono sempre chiesto, qui non puoi coltivare niente, i monaci buddisti passano ogni mattina a raccogliere le offerte dei fedeli, qualcuno di questi frati scendeva ogni giorno a Decontra? o erano i pastori che portavano qualcosa da mangiare? e in inverno? sepolti dalla neve e circondati dai lupi? ammetto la mia ignoranza e dichiaro il mio stupore e la mia ammirazione per una vita che rispetto ma faccio fatica a capire.
La discesa in assoluta solitudine verso Fonte Tettone e la civiltà è lunga e noiosa, da Mammarosa al Passo di Lanciano c’è un raduno di motociclisti, dobbiamo scendere più in basso al Grand Hotel Panorama, parcheggio pieno, piscina colma di bambini vocianti, l’eremo di S. Giovanni e i suoi monaci sono già a distanze siderali, persi nel tempo e nei ricordi.
24 luglio Fonte Tettone – Macchie di Coco. Salita 536 m – lunghezza 16,79 km
Rombo di motori, i bikers scendono impettiti sulle loro moto come fieri cavalieri medievali, noi cominciamo il nostro peregrinare risalendo verso fonte Tettone per poi essere inghiottiti dalla impassibile faggeta del vallone di S. Spirito. Sarò sincero, la faggeta pura non mi piace, è cupa, severa e monotona, i tronchi grigi sono un esercito armato puntato verso il cielo invisibile, l’unico rumore è il fruscio dei nostri passi sul tappeto di foglie marroni, nemmeno un lupo a distrarci un po’.
Dopo un’ora di discesa all’improvviso rumore di motori, voci di ragazzi, una strada asfaltata e l’eremo di S. Spirito a Majella, da non confondere con S. Spirito al Morrone!?
Per la verità di eremo non ha proprio niente, è un cenobio, un convento, il risultato dell’ennesimo tentativo di frà Pietro del Morrone di isolarsi e cercare la pace dello spirito e terminato con l’arrivo di nuovi discepoli, anime da elevare, persone da gestire, ripari da costruire. La chiesa e i ruderi del monastero sono ciò che resta delle tante ristrutturazioni, aggiunte, modifiche effettuate nei secoli e la strada asfaltata porta visitatori, bancarelle, ticket, bambini, grida, se fossi Pietro scapperei di nuovo su per i monti, cosa che in realtà ha fatto.
La prossima meta, l’eremo di S. Bartolomeo in Legio, dista più di tre ore di camminata e il fresco della faggeta, sì ci sono dei lati positivi nella faggeta, diventa un rimpianto quando sbuchiamo in Valle Giumentina appena devastata da un incendio. Sembra di essere piombati in uno spaghetti western, sole a picco, caldo asfissiante, sudore che cola sul viso, ruderi pietrosi tra i cespugli anneriti, invece della diligenza una camionetta antincendio che va avanti e indietro indecisa sul da farsi, manca solo il sigaro di Clint Eastwood.
Finalmente l’orlo del canyon, cespugli e alberelli ancora verdi, un rigagnolo sul fondo, sulla falesia di fronte l’eremo di S. Bartolomeo è annidato sotto un tetto di roccia come una piccola Mesa Verde, giusto per restare nel West, sicuramente il più scenografico tra gli eremi visitati.
Non siamo soli, c’è una comitiva di ragazzi dal paesino di Roccamorice a cui l’eremo appartiene, non sono invadenti turisti ma allegri fedeli, frà Pietro, che anche qui si era ritirato dopo averlo ricostruito, li avrebbe accettati con un rassegnato sorriso, per poi cercare l’ennesimo rifugio tra i monti.
25 luglio Macchie di Coco – Manoppello. Salita 579 m – lunghezza 18,56 km
Ultima tappa, tutta discesa dice il bigino, non è proprio così ma ci siamo abituati.
Sul sentiero verso la grotta S. Angelo di Lettomanoppello alcuni tholos, le capanne di pietra simili ai trulli utilizzati in passato da pastori e contadini, un paio di panchine in posizione panoramica bloccate con una catena, non si sa mai, sulla targhetta versi de La ginestra di Leopardi (significato da indagare), sul fondo del burrone una sorgente d’acqua freschissima. La grotta è in realtà un’ampia cavità nella parete, luogo di culto ancestrale dice sempre il bigino, al centro un rudimentale altare, in alto una statua dell’arcangelo Michele patrono dei Longobardi, l’unica nota di colore sono i cespi di campanule azzurre sulle pareti.
Salita su sentiero e strada asfaltata fino a Fonte Pirella, un grande abbeveratoio, poi di corsa, si fa per dire, su fino a Fonte dei trocchi, niente sosta, minaccia pioggia e finalmente giù, questa volta davvero, fino al sentiero nel bosco che porta all’eremo di S. Onofrio di Serramonacesca, il terzo con questo nome, evidentemente il suo culto è molto diffuso in Abruzzo.
Seduti ai tavoli di legno grezzo davanti alla chiesetta di recente ricostruzione una famiglia di francesi, all’interno sopra l’altare una statua, diciamo naif, di S. Onofrio, due tende verdi ai lati dell’altare nascondono l’accesso alle grotte dove vivevano gli eremiti, una bambina dei francesi salta per raggiungere la corda della campana, avrebbe sorriso anche frà Pietro.
Ultima ora di discesa verso l’Abbazia di San Liberatore a Majella, immersa nel verde del bosco ma raggiunta da una strada asfaltata, tanta gente, chi fa foto, chi sonnecchia sull’erba, chi legge i cartelli informativi, chi chiede dov’è il ristorante, siamo gli unici con zaino e scarponi.
La facciata dell’abbazia è semplice e austera, come deve essere una chiesa romanica benedettina, l’interno lo vedremo dopo, adesso alla casetta di legno sull’angolo a sinistra per l’ultimo timbro sulla Cartha Peregrini e il diploma attestante la finis peregrinationis con tanto di timbro in ceralacca.
Foto e WhatsApp a amici e parenti, molte congratulazioni e un – sembrate stanchi – no, non è vero, sembrava facile…
Nel 1294 frà Pietro del Morrone venne raggiunto dai legati papali nel suo eremo preferito di S. Onofrio al Morrone i quali gli comunicarono l’elezione a Papa. I Cardinali, che non riuscivano a mettersi d’accordo sul successore di Niccolò IV, lo avevano scelto perché venerato dal popolo ma soprattutto perché molto anziano, era ultraottantenne, e pensavano facilmente manovrabile. Frà Pietro accettò a malincuore e scelse il nome di Celestino V, ma quando, dopo pochi mesi, si accorse di non essere in grado di gestire una situazione che niente aveva a che fare con la religione, si dimise dal soglio attirandosi l’ira di Dante che lo bollò come – colui che fece per viltade il gran rifiuto- ma Dante aveva i suoi motivi. Nel 1313 venne canonizzato come San Pietro Celestino e non come San Celestino V come tutti i santi pontefici, ma questa è un’altra storia.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.