Tutto è cominciato questa mattina alle sette circa, l’autista del minivan che è venuto a prendermi alla guesthouse si aspettava tre passeggeri – sono solo, gli altri non sono potuti partire dall’Italia – y los otros dos? – no estan! – central, hay uno, faltan dos! – e avanti così per tutto il viaggio – y los otros dos? no estan! central, hay uno, faltan dos!
L’aeroporto di Nasca è un salone dove gli impiegati ai banchi dei tour operator sono più numerosi dei passeggeri, un gruppo di giapponesi si guarda in giro spaesato, alcuni ragazzotti si danno arie da viaggiatori incalliti, quattro, con me cinque e si può partire, foto con sorriso da confrontare con quello alla fine del volo, ai primi due posti io e il marcantonio danese – per bilanciare il peso – dicono, la sua ragazza è un po’ incazzata – non è colpa mia – i due piloti, giovani, di bella presenza, uniforme immacolata, si sorridono e tubano come le tortore che mi hanno svegliato questa mattina, l’aereo a terra romba come un trattore ma poi si alza e vola come una libellula nel cielo sereno.
Le linee di Nazca
Sole basso, niente vento, ed eccole le famose linee di Nazca, ma sono i geoglifi degli animali ad attirare lo sguardo, la balena, il ragno, virata a destra per permettere la visione a chi sta a destra e ha la macchina fotografica (io), l’astronauta, il colibrì, virata a sinistra per quelli di sinistra che hanno solo il cellulare ma dopo le prime non fanno più foto perché si vede ben poco col cellulare (il danese e gli altri tre), il cane, il condor, la scimmia.
Linee e disegni a parte il panorama è incredibile, colline nere che si allungano come mani sulla distesa grigia dell’altopiano su cui, come in un dipinto di Pollock, antichi torrenti hanno lasciato aggrovigliate scie bianche, e poi all’improvviso l’acqua, il verde, la vita della valle di Nazca. La Panamericana? Lasciamo perdere, una riga nera che taglia tutto quello che trova, ma l’hanno costruita prima che si scoprissero i geoglifi, dicono.
All’atterraggio il ragazzo della coppia francese scende con la maglietta inzuppata di sudore, io nemmeno una goccia, che soddisfazione!
Ammetto, non mi sono preparato – sono le dieci, che faccio? – se vuoi ti organizzo tutto io mi dice Remy, il mio gentilissimo ospite, un olandese felicemente immigrato e maritato in Perù, ed ecco il programma: ore 11:00 visita al Museo Antonini, cinque minuti a piedi dal mio B&B (B&B El Jardin)( – ore 12:30 pranzo, ristorante a scelta nei dintorni – ore 14:00 visita in macchina al sito archeologico di Cahuachi e al cementerio di Chauchilla – cementerio?
Il museo Antonini
Il Museo Antonini, si chiama così perché raccoglie i reperti raccolti durante le campagne di scavo portate avanti da archeologi italiani nel territorio di Nazca, è piccolo ma molto curato e soprattutto con molti pannelli illustrativi, se non vi piace leggere potete sempre guardare i bei vasi di terracotta dipinta, se invece amate l’horror potete fermarvi davanti alle vetrine delle teste mummificate e immaginare come è stata inserita la corda che esce dal centro della fronte.
Ore 13:30, in attesa del tour pomeridiano. Remy ha un bel giardino con una trentina di alberi da frutto all’interno del quale gironzolano due cani peruviani, un gatto olandese, due conigli e un pappagallo locali, una tartaruga che però non si vede mai, tortore a gogo’, un gallo, le sue galline e un suocero a cui tutti si rivolgono come El Profesòr – professore di Storia Peruviana – mi dice – in casa ho un piccolo museo con reperti tutti originali!
Pomeriggio con Gennaro, lui sostiene di chiamarsi così, cinquant’anni scuro basso tarchiato senza collo naso grifagno mi parla in spagnolo facendo lo spiritoso con la cadenza similnapolsiciliano che si vede qui usano nei film di storie di mafia trasmessi in TV, a ogni frase mi dà una manata sul ginocchio – Gennaro, yo soy milanés! – no te preocupe! – ride e giù una manata.
Acueducto de Ocongalla
Prima sosta all’Acueducto de Ocongalla, un fontanile profondo ombreggiato da enormi huarango – così si chiamano questi alberi – dice Gennaro e aggiunge – ce ne sono 38 di acueductos attorno a Nazca, tutti pre-incas, e funzionano ancora. Poi via su una strada sterrata con scorci che ricordano la savana africana, caldo torrido, 38°C segna il termometro della macchina – sei fortunato, ieri ha sfiorato i 40°C – ride e giù una manata.
Paisaje arqueologico Pampas de Cahuachi
Paisaje arqueologico Pampas de Cahuachi dice la scritta bianca su un muretto blu che appare nel nulla, ma proprio nulla, un mondo lunare fatto da collinette di terra grigia senza un filo d’erba, ci vive solo qualche volpe che riesce a mangiare qualche uccello mi garantisce Gennaro – ma una volta ci vivevano anche gli uomini – e si ferma in un tratto dove il nulla è tutto butterato da avvallamenti poco profondi, era un cimitero antico ma i ladrones de tumbas hanno scavato e portato via tutto, rimangono solo un po’ di tibie sparse in giro.
Cahuachi
Poco più avanti c’è finalmente Cahuachi. Il custode del sito è un vecchietto sdentato a cui Gennaro ha portato un giornale – almeno di sera legge qualcosa – mentre le ombre dei morti si aggirano qui attorno, penso io, mai e poi mai farei un mestiere del genere in un posto simile!
A proposito di Cahuachi, il sito è sicuramente importantissimo, probabilmente molti dei geoglifi visti dall’aereo questa mattina sono stati tracciati dalla gente di questa città, l’altopiano delle linee è appena al di là della stretta valle del Rio Nazca, ma il sito si può solo visitare dall’esterno, non ha costruzioni maestose e, secondo me, se uno non ha un preciso interesse per la storia e l’architettura preincaica di Nazca se lo può dimenticare, e poi ci sono i fantasmi dei morti che girano lì attorno…
El cementerio di Chauchilla
E adesso? – vamos a el cementerio di Chauchilla – ride e giù una manata, era da un po’ che ne sentivo la mancanza. Vento che ti asciuga, sullo sfondo montagne colorate di rosso, miniere di oro mi indica Gennaro, il solito monolito informativo blu è più scientifico, non cementerio ma Necropolis de Chauchilla. Una piccola costruzione giusto per poter pagare il ticket, un percorso segnato da sassi bianchi, una dozzina di tettoie di legno – io aspetto qui – dice Gennaro – non credo che farò tardi – no te preocupe! – ride ma mi sono portato fuori tiro in tempo.
Luce radente, foto difficili, tombe restaurate, sono passati prima i tombaroli ma almeno hanno lasciato i corpi mummificati, le tombe sono scavate e le pareti sono rinforzate con muri di sassi, dentro ci sono le mummie in posizione fetale avvolte in stoffe, ce n’è una ancora coi capelli rossastri, due con una fascia in fronte tipo quelle dei navajos di Tex Willer, un bambino in un fagotto, un’altra circondata da tibie in fila ordinata, tettoie scheletriche, montagne brulle, gemiti di vento, sole al tramonto, i teschi bianchi ti guardano dal fondo delle tombe, è l’ora degli spiriti, brrr…
Al ritorno birra ghiacciata offerta da Remy poi cena al ristorante, riso fritto con anelli di calamaro e gamberetti ricoperti di formaggio, brrr…
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.