Siamo a Londra da quattro giorni con il capo, e ci resteremo per altri tre. Un viaggio fatto di pasti interminabili, riunioni in banche e fondazioni, ma anche pellegrinaggi nei farmers’ markets. Siamo stati addirittura ricevuti da un conte convertito all’agricoltura biologica dopo un passato inglorioso come pilota di Formula Uno. Ma oggi è domenica e, da buon italiano, anche il capo vuole riposarsi per un giorno. In uno slancio di generosità ha dato la libera uscita anche a me e al mio collega: questo significa che – se non ci telefonerà perché ha perso un’altra volta gli occhiali – potremo fare quello che vogliamo.
Facciamo fatica a crederci, al punto da essere quasi tentati di prendere un treno per Brighton, mettendo un po’ di miglia tra noi e il boss. Ma sprecare così una giornata ci sembra un’eresia. Io sono stata a Londra tantissime volte, R. ci ha vissuto per anni: decidiamo quindi di vedere qualcosa che non conosciamo. Da Lancaster Gate prendiamo prima la Central e poi la Northern e, quando scendiamo dopo sette fermate, Hampstead ci accoglie con un cielo senza nuvole.
È una di quelle giornate che è raro trovare a Londra: il sole è caldo, e sento che non pioverà. Percorriamo Heath Street, poco trafficata e fiancheggiata da edifici bassi: chissà perché ho l’impressione di essere in un villaggio creato dalla penna di Agatha Christie, e non in un ricco sobborgo londinese. Attraversiamo Hampstead Heath, uno dei parchi più estesi della città, oltre che uno dei più vecchi.
Dopo mezz’ora arriviamo a destinazione: la sagoma bianca e imponente di Kenwood House si staglia contro l’azzurro del cielo, oltre la distesa di erba verdissima che ci separa dall’ingresso. In poco più di un miglio siamo passati da Miss Marple a Elizabeth Bennet: non è difficile immaginare tavolini di ferro battuto, servizi da tè in porcellana e vassoi a più piani con scones e bacon sarnies che aspettano di essere mangiati.
Sono affamata dopo la camminata, ma R. vuole vedere l’interno di Kenwood House, villa del XVII secolo appartenuta al primo conte di Mansfield e attualmente gestita dall’English Heritage, organizzazione che si occupa di preservare i siti storici. Alcune stanze sono arredate con i mobili acquistati dal conte, ma la cosa più sorprendente è la collezione di dipinti che include opere di Rembrandt, Van Dyck, Vermeer e Gainsborough.
Il tour finisce ed è ora di pranzare, ma invece di farmi rapire dalla sindrome di Stendhal vengo colpita da quella di Brillat-Savarin. Come un segugio trovo il Brew House, il piccolo ristorante allestito in un’ala della villa. Non c’è posto né dentro né fuori, quindi prendiamo esempio da altri clienti: ordiniamo tè freddo e panini al salmone e mangiamo sul prato. Ci gustiamo il nostro picnic improvvisato, godendoci la vista sulla città.
Potremmo decidere di passare il resto della giornata a fare niente, ma il mio collega non è d’accordo. Ci mettiamo in cammino, attraverso i sentieri del parco. Dopo quasi mezz’ora siamo di nuovo al riparo dal sole, sotto le piante secolari dell’Highgate Cemetery. Risalente al 1939, era parte di un progetto che prevedeva la costruzione di sette cimiteri lontani dal centro della città. Nel giro di pochi anni divenne un luogo alla moda, anche grazie alla visione vittoriana della morte che contribuì alla costruzione di tombe e edifici gotici.
I sentieri che attraversano il cimitero portano in un altro mondo: il rumore delle macchine è lontano, mentre i raggi del sole fanno fatica a oltrepassare le folte chiome degli alberi. Accanto alle tombe di ospiti illustri come Karl Marx, Christina Rossetti e George Eliot, calpestiamo la terra sotto la quale sono sepolte persone comuni. Una di queste è un pugile: accanto alla sua lapide è stata eretta la statua di Lion, il fedele cane del defunto. Su altre tombe sono distesi angeli straziati dal dolore, mentre in alcuni casi è impossibile anche solo leggere il nome sulla lapide per via dei rami degli alberi avvinghiati attorno alla pietra.
Non so se è colpa della penombra o se mi sto facendo suggestionare dal rumore delle foglie, ma ho l’impressione che la temperatura si sia abbassata. L’atteggiamento del mio collega non aiuta: mi sta raccontando la storia del vampiro di Highgate. Sembra infatti che la bara di un nobile della Transilvania fosse stata trasferita a Londra secoli fa. Ricorda di aver letto che la salma dell’aristocratico rumeno – che da vivo praticava la magia nera – venne sepolta a Highgate.
Sono certa che si stia prendendo gioco di me, fino a quando mi fa leggere sul cellulare l’intervista a un uomo che nel 1970 dichiarò di avere delle prove inequivocabili dell’esistenza del vampiro. Gli restituisco il telefono senza leggere oltre: all’improvviso le leggende legate al cimitero non mi interessano più. E poi mi sbagliavo: qualche goccia di pioggia sta filtrando attraverso le foglie, cadendo pesantemente sul sentiero sterrato.
Di fronte ai cancelli del cimitero fermo un taxi: è una mia impressione o l’autista assomiglia in maniera impressionante all’uomo che rastrellava le foglie accanto a una tomba?
Quando arriviamo a destinazione, non sono riuscita a darmi una risposta. Scendiamo lungo Holly Hill, non lontano da Heath Street, e imbocchiamo un vicolo dove, se fosse notte, non mi stupirei di vedere un uomo alto, con un lungo mantello nero e un bastone con l’impugnatura dorata. Ma di fronte a noi c’è solo l’Holly Bush, un pub in un vecchio edificio vittoriano intonacato di bianco.
Il sole è sbucato timidamente tra le nuvole ma l’aria è ancora fresca e le panche di legno davanti all’ingresso sono ancora coperte d’acqua. Ma niente ferma la sete degli avventori che sorseggiano pinte traboccanti, le maniche delle camicie arrotolate sopra i gomiti e le cravatte allentate. Noi prendiamo posto all’interno, a uno dei piccoli tavolini rotondi. Come se le storie di vampiri e fantasmi non fossero abbastanza, ordino una pinta di Adnams Ghost Ship, una pale ale amarognola con un forte retrogusto di malto. Non è ancora ora di cena, ma il panino al salmone ormai è un ricordo lontano. Insieme alla birra prendiamo bucce di patate al forno servite con salsa al timo e tartine con paté di granchio e maionese.
Abbiamo quasi finito la seconda birra quando squilla il telefono. La chiamata più temuta di tutto il giorno è arrivata: è il capo. Ha cambiato idea, vuole mangiare indiano da Veeraswamy, uno dei suoi ristoranti preferiti. È anche uno dei miei preferiti, per cui, tutto sommato, questa giornata poteva anche finire peggio.
Foto di copertina: Pedro Szekely
Abito in un piccolo paese di provincia e lavoro in un ufficio in una stradina secondaria. Immagino però di vivere a Notting Hill, di lavorare a Williamsburg, di prendere un aperitivo a Montmartre e di cenare a North Beach. E magari di fare shopping sulla Fifth Avenue. Non so cucinare, ma adoro mangiare. Mi piace conoscere un posto nuovo attraverso il suo cibo e le sue tradizioni culinarie. Non riesco a fare a meno di raccontare quello che ho scoperto agli altri.
Wow. Sono stato a Londra una sola volta e me ne sono innamorato. Ci tornerò sicuramente e terrò il Tuo articolo come “mappa” per ripercorrere i posti che hai indicato.
Anche io sono innamorata di Londra, e non vedo l’ora di tornarci per l’ennesima volta tra un paio di mesi!
Fammi poi sapere le tue impressioni su questi posti.
Certo, con immenso piacere