L’assegnazione delle Olimpiadi ad una città è un grande avvenimento sotto ogni aspetto, compreso quello architettonico ed urbano. La creazione di nuovi impianti, il riammodernamento di quelli già esistenti e la creazione dei villaggi olimpici, che per grandezza sono spesso dei piccoli quartieri cittadini porta modifiche sostanziali al tessuto urbano delle città ospitanti. Alla creazione di questi grandi complessi segue naturalmente il problema della gestione terminato l’evento in sé, affinchè il nuovo edificato non resti abbandonato ed inutilizzato ma si possa amalgamare con la città intorno andandola ad arricchire.
È giudizio comune che le Olimpiadi Invernali del 2006 abbiano segnato un punto di svolta e di rinascita per la città di Torino, dopo anni in cui le sue periferie – ma anche il centro – erano luogo di degrado e di disgregazione sociale ed architettonica. Per gestire il lascito di questa grande manifestazione è stata creata la Parcolimpico Srl, così da sfruttare al meglio l’insieme di palazzetti multifunzionali, strutture ricettive ed impianti sportivi. Sicuramente uno dei più noti, anche per l’intensivo impiego che se ne fa, è il Palasport Olimpico, o Palaolimpico, o PalaIsozaki, dal nome dell’architetto giapponese che l’ha progettato: le sue opere severe e rigorose coniugano il tradizionale amore giapponese per le linee pure all’impiego delle più moderne soluzioni tecnologiche.
L’edificio, progettato da Arata Isozaki con la collaborazione del piemontese Pier Paolo Maggiora, sorge in una zona semicentrale, nel quartiere Santa Rita, a pochi metri dallo Stadio Olimpico, e fu concepito affinché, dopo le gare olimpiche di hockey, potesse essere il più polivalente possibile, in modo da ospitare qualsiasi tipo di evento. Così è stato, e dal 2006 vi si sono svolti moltissimi concerti, congressi politici, spettacoli, manifestazioni religiose, ed eventi di ogni genere grazie alla mobilità delle tribune, costituite da un sistema di gradinate mobili e retrattili.
La progettazione ha ridefinito completamente anche lo spazio urbano intorno, costituito dall’ex stadio comunale e dalla Torre Maratona (1933), tramite la pedonalizzazione di parte dell’area circostante e l’impiego di lampioni a luce fredda, realizzati con tubi trasparenti alti cinque metri (come il basamento del palazzo). Adesso un grande spazio verde annuncia ed isola il complesso formato dalla Torre e dai due palazzetti.
Visto dall’esterno l’edificio si presenta come un grande e rigoroso parallelepipedo (lungo 183 metri, largo 100 ed alto 18) sospeso da terra, poggiando su un basamento di cinque metri in vetro e cemento a vista. Per la forma Isozaki ha detto di essersi lasciato ispirare dalla severa griglia ortogonale delle strade torinesi. Le facciate sono rivestite in pannelli di lucido acciaio inossidabile con finitura opaca e bugnature superficiali che riflettono il parco e gli edifici vicini. Alternati ad essi sono disposte in modo irregolare, così da movimentare i prospetti, tutta una serie di finestre orizzontali lunghe e strette.
Parlare dell’interno è più difficile, per via della sua profonda versatilità. Di sicuro c’è all’ingresso una parete inclinata riflettente che, come un mosaico di specchi, rimanda le immagini di chi entra: questo effetto è a conti fatti lo stesso delle lastre di acciaio dell’esterno. Il volume interno si sviluppa su quattro livelli, due interrati (fino a 7,5 metri sotto terra) e due all’aperto (fino a 12 metri d’altezza), e che i suoi oltre 12.000 posti a sedere ne fanno il più grande palasport italiano, superando in capienza il Mediolanum Forum di Assago (Milano) ed il Palalottomatica (Roma). In linea di massima il piano interrato in basso ospita il campo di gara ed i locali di servizio mentre quello appena superiore era destinato alla famiglia olimpica e ai media. Il piano terra serve agli accessi e alle aree di distribuzione per le tribune, mentre a sei metri dal livello stradale si snoda un ballatoio perimetrale di circolazione che ospita i servizi di ristorazione.
Sia le tribune sia il piano della pista sono dotati di un sistema meccanico che ne permette il movimento. Ad eccezione di quelle in cemento armato, e per questo naturalmente immobili, quelle sui lati corti e quelle a livello dell’originario da gioco si possono muovere fino ad “impacchettarsi” e sparire.
Un po’ toscano, un po’ lombardo, viaggio molto ma i letti sono sempre troppo corti per me. Da piccolo giocavo con le costruzioni e da grande mi sono innamorato delle linee armoniche dell’architettura classica. La dimensione del viaggio per me è un’esperienza prima che fisica conoscitiva perché seguendo la strada battuta da Polo, Chatwin, e Rumiz credo che la consapevolezza di ciò che si guarda è il primo passo per comprenderne la bellezza.