Preah Vihear, il tempio conteso tra Cambogia e Thailandia – Conosciamo poco della realtà di questo paese, soprattutto se è avvolta da un velo di silenzio e di sospetto come qui a Anlong Veng, nel nord della Cambogia, ultimo rifugio dei khmer rossi e punto di sosta per raggiungere il tempio di Preah Vihear al confine con la Thailandia.
Tre ore di macchina da Siem Reap, prima risaie che non sono mai rigogliose come quelle della Thailandia, poi foresta strana. Già in macchina si parla dei massacri, poi, arrivati nella cittadina, strade larghe, poca gente, sguardi sfuggenti e una camera d’albergo con le inferriate. “Siamo proprio in prigione”, dice mia moglie un po’ nervosa. Dopo pranzo andiamo a vedere la casa di Ta Mok, conosciuto anche come “il macellaio”, l’ultimo leader dei khmer rossi come ci anticipa Alessandro (questo ci mancava!).
La casa di Ta Mok, due piani di cemento in stato di abbandono, in sé non è niente di speciale, ma le due gabbie con sbarre di ferro lì davanti lo sono certamente. “Venivano usate per i prigionieri”, “dentro non è possibile stare in piedi, non voglio nemmeno pensarci”, “E quel camioncino sgangherato era la stazione radio mobile di Pol Pot”, aggiunge Alessandro.
La palude sul retro della casa, creata da uno sbarramento artificiale fatto costruire da Ta Mok, è punteggiata da tronchi scheletrici e le ninfee sono senza luce. “Domani andiamo al tempio di Preah Vihear, vedrete che bello, sta in montagna e c’è un panorama stupendo”, ci anticipa Alessandro per tirarci su il morale.
Mattino seguente. Prima di partire facciamo un giro al mercato vicino all’albergo/prigione: frutta, verdura, polli e anatre per terra, carni e pentole fumanti sui banconi, bimbi tra le bancarelle alla ricerca di qualcosa, un mazzo di ninfee rosa su uno scooter, il proprietario ci osserva da dietro i suoi occhiali scuri, di sicuro è un ex khmer rosso, lo sono tutti qui…
Due ore monotone di macchina separano Anlong Veng dal Preah Vihear; la strada si fa interessante solo al momento di montare sul SUV per la salita al tempio, 600 metri sopra la pianura cambogiana. C’è un altro posto in cabina, “Vieni”, mi dice mia moglie, “No, sto sul cassone”, rispondo io facendo il duro, ma le fiancate sono molto più dure e gli scossoni tanti.
In cima, bambini in sdrucite divise militari ci guardano con curiosità, le loro mamme stendono il bucato tra le baracche coperte da tela cerata blu, militari armati (forse i loro papà?) siedono sotto un grande striscione che dice “Sono orgoglioso di essere nato Khmer”. Perché tutto questo nazionalismo? “Perché questo tempio, dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è da sempre conteso tra Cambogia e Thailandia e anche se un tribunale internazionale l’ha assegnato alla Cambogia si sono sparati con un po’ di morti fino a poco tempo fa”, ci dice Alessandro.
Si continua poi a salire a piedi prima lungo un sentiero reso scivoloso dall’umidità, poi sul viale selciato che porta al tempio. Accovacciate per terra, nella nebbia, un gruppo di donne taglia con forbici da sarto l’erba che spunta tra i blocchi di pietra, chiacchierano e sorridono; più avanti, una scalinata preceduta da grossi fori pieni d’acqua, (domanda “A cosa servono?”, risposta “Nessuno lo sa”).
Terrapieni di pietra scura, muri incrostati da licheni grigi, pilastri pericolosamente inclinati, porte vuote in sequenza, colonnine tornite alle finestre, timpani scolpiti con divinità chiaramente hindu: tutta l’architettura assomiglia molto ad alcuni templi attorno ad Angkor Wat. “Guarda quella porta con quel frontone elaborato e guarda questa” ci dice Alessandro, “Sulla banconota cambogiana da 100 Riels c’è proprio la porta che stiamo vedendo, un altro modo per ribadire che il tempio è khmer e non thai”.
Dire che mia moglie è seccata è dire poco (“Hai caricato la macchina fotografica ieri sera?”, “Certo”, “E allora perché non funziona più?”, “Sarà per colpa dell’umidità”…ovviamente non è convinta ma come faccio a dirle che la mia è tropicalizzata e la sua no?): ancora salita, gradini, una cascata di fronde esplode dalla cima di una piccola costruzione isolata, uno spigolo affilato emerge dalla nebbia come la prua di una nave fantasma, nella nebbia si materializzano alcune ombre, turisti o fedeli cambogiani e soldati, siamo sull’ultimo sperone.
Vista: nessuna, nebbia fitta e bagnata che sale a folate e due giovanotti in divisa che ci guardano sorridenti dai sacchetti di sabbia di una postazione militare. Un maialino arrosto è steso su una stuoia in mezzo a frutta, bastoncini d’incenso, lattine di Coca Cola, candele spente e fiori di loto appassiti: sono le offerte lasciate a quel che resta di una divinità su un antico altare.
Discesa sempre nel cassone del SUV, in basso c’è una boscaglia rada e prati verdi su cui risalta il rosa vivo di decine di tulipani del Siam (Curcuma alismatifolia). Belli, meritano una foto. “Stai sulla strada”, mi avverte Alessandro e mi indica un cartello rosso inchiodato a un albero: teschio bianco su fondo rosso, scritta “Danger!! Mines!!”. Ci sono dal tempo della guerra del Vietnam e dal tempo dei khmer rossi, dicono che stiano sminando ma in realtà le lasciano, perciò non si sa mai purtroppo.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.