“Ogni tanto, quando gli spazi aperti mi chiamano dopo aver condotto per mesi una vita sedentaria combattendo con i manoscritti, mi prefiggo di vedere qualcosa in più di questo mondo, che nonostante la sua condizione precaria e sofferente, continua a sorridere a coloro che gli ricambiano il sorriso.”
Erano gli anni Venti del XX secolo, un’epoca segnata da atroci conflitti, dal colonialismo e dalla segregazione razziale, e da enormi trasformazioni politiche e sociali. Erano anche anni che si aprivano a straordinarie conquiste, scoperte ed esplorazioni. Anni in cui viaggiare era ancora un’esperienza terribile e meravigliosa al tempo stesso, ovunque si andasse.
Aimé Félix Tschiffely – autore delle parole riportate qui sopra nonché del suo racconto autobiografico “Tschiffely’s Ride” – un pacifico ragazzo svizzero appassionato di archeologia, di letteratura e di viaggi, si era trasferito a Buenos Aires per insegnare all’università locale. Amava l’avventura e i cavalli, ma non aveva che una semplice esperienza di cavallerizzo dilettante quando si è messo in testa di portare a termine un viaggio che sarebbe passato alla storia: attraversare il continente americano, dall’Argentina allo stato di New York, accompagnato solamente da due cavalli. Il percorso che aveva in mente si estendeva per circa 16.000 chilometri, attraversava città e villaggi, ma soprattutto enormi distese di terra desolata in cui avrebbe potuto affidarsi esclusivamente al suo spirito di sopravvivenza.
Se la sua avventura appare emozionante ancora oggi, è facile immaginare come all’epoca sia stato addirittura deriso e sbeffeggiato quando annunciò le sue intenzioni. Tra una città e l’altra avrebbe dovuto affrontare insidie naturali e incertezze, senza poter certo avvalersi di strade moderne o stazioni di rifornimento come quelle a cui siamo abituati noi. Avrebbe dovuto contare sull’ospitalità dei locali, i quali non avevano certo motivo di amare particolarmente un occidentale visto il trattamento che era stato riservato loro dai poteri coloniali. Avrebbe abbattuto ostacoli linguistici e culturali per procurarsi alloggio e il nutrimento necessario per sé e per i suoi cavalli. Avrebbe assistito a scene di insopportabile sofferenza e iniquità a cui gli indiani erano sottoposti, senza però avere i mezzi per intervenire e opporsi. Avrebbe sopportato la sete, la fame, il caldo e il freddo, proseguendo su percorsi accidentati che da un momento all’altro avrebbero potuto porre termine alla sua traversata lasciandolo solo e disperso in mezzo agli spazi sconfinati dell’America Meridionale.
Anche i compagni che si era scelto non avevano mancato di destare qualche perplessità tra gli esperti del mondo equestre. Si trattava di due criollo argentini, i discendenti dei cavalli dei conquistadores spagnoli, una razza molto poco stimata e dalla corporatura apparentemente goffa e poco vigorosa. Invece Mancha e Gato, descritti dalle cronache locali come i due ronzini di un Don Chisciotte votato al suicidio, si sarebbero rivelati dei compagni fedeli, infaticabili, tenaci e coraggiosi almeno quanto il loro padrone.
Come rivela l’autore nelle pagine del suo libro, tutti i cavalieri sanno quanto sia profondo il legame che si instaura tra l’uomo e l’animale nel corso di un lungo viaggio. Quelli che erano cominciati come degli accorgimenti dovuti essenzialmente al bisogno di preservare la sua cavalcatura, si sarebbero presto evoluti in espressioni di sincero affetto, di complicità e fiducia. Grazie ai suoi due fedeli destrieri, il viaggio di Tschiffely, iniziato agli occhi di tutto il mondo come una follia ingiustificata, si sarebbe rivelato la conquista spettacolare di un uomo e dei suoi due compagni di viaggio, gli eroi delle pampas. Una conquista a cui Tschiffely dedicò quasi tre anni di viaggio.
Tornato a Buenos Aires dalla sua incredibile epopea, l’avventuriero svizzero fu salutato da tutti con entusiasmo e ammirazione. Scrisse il racconto della sua eccezionale esperienza e, dopo un iniziale rifiuto da parte degli editori, riuscì a pubblicarlo nel 1933. Con il passare degli anni la sua avventura divenne leggenda, ma una leggenda relegata al ristretto mondo equestre, quasi una gemma dalla forma insolita che non si riesca a condividere con un pubblico più vasto. A farne la traduzione per la casa editrice Equitare è stato un altro cavaliere innamoratosi del mondo dei gauchos, Vittorio Ferro, spinto dall’ammirazione per l’impresa di Tschiffely e dal desiderio di onorare la sua memoria.
Aimé Félix Tschiffely è morto inaspettatamente nel 1954, in seguito alle complicazioni di un piccolo intervento chirurgico. Il suo ultimo viaggio terrestre lo ha riportato in Argentina, dove le sue ceneri sono state sparse sulla pampa che tanto amava. Chissà che proprio lì non abbia rincontrato anche i suoi fedeli amici, Mancha e Gato.
Buon viaggio, Aimé…
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.