Mi alzo senza bisogno della sveglia. Mi asciugo il sudore dalla pelle e mi siedo sul materasso. Il mio posto letto è proprio nel mezzo del corridoio di questo enorme albergo che insieme ad altri 40 volontari chiamo casa, il che mi rende la preda meno probabile delle zanzare che arrivano dalle finestre, ma anche la più lontana dai ventilatori. A giudicare dai segni rossi da cui sono ricoperti gli altri direi che dormire immersi nel sudore è decisamente il male minore.
Alle sei e mezza la maggior parte dei ragazzi sono nel corridoio per fare colazione con un cestino di pane, marmellata e frutta fresca. Mi siedo a uno dei tavoli da giardino e divoro una fetta di pane con burro di arachidi, poi butto giù il boccone con una tazza di caffè solubile molto dolce. Intanto i volontari raccolgono l’attrezzatura e sulle pareti rimbalza il suono di martelli, pale e picconi.
Passiamo davanti a cumuli di macerie in fiamme, case dilaniate e, nonostante tutti, i volti sempre sorridenti degli abitanti di un città che non si sono rassegnati al disastro provocato dalla più devastante tempesta tropicale che la storia ricordi.
Per circa due settimane questo è stato il mio rituale mattutino mentre prestavo servizio come volontaria nelle Filippine.
Il 7 novembre 2013 il tifone Haiyan si è abbattuto sul Paese uccidendo oltre 6000 persone e lasciando dietro di sé mezzo milione di sfollati. Poco dopo ho cancellato i miei progetti in Cambogia e mi sono offerta volontaria per le Filippine.
Ho lavorato con un’organizzazione chiamata All Hands e stanziata a Ormoc, in una delle regioni più colpite del Paese. All Hands è specializzata nel coordinamento dello smaltimento di rifiuti e macerie, raccogliendo i detriti, abbattendo le case inagibili e salvando i materiali utili alla ricostruzione.
Non ero mai stata in un sito disastrato prima d’ora, né avevo mai tenuto in mano un piccone. Non sapevo cosa aspettarmi da questa esperienza, ma è stata una delle decisioni migliori che abbia mai preso nella mia vita.
Ogni giorno uscivamo in gruppi dislocati in differenti punti della città per fare qualunque cosa in nostro potere, dal ripulire il cortile di una scuola, all’abbattere architetture pericolanti, fino al raccogliere pile e pile di rifiuti maleodoranti. Gli interminabili sorrisi e il calore della popolazione di Ormoc ci faceva quasi dimenticare il disastro che si era abbattuto in questa zona.
Le persone ci venivano incontro con lacrime di gioia e ci ringraziavano per il nostro aiuto. Non ho mai incontrato nessuno che reagisse aggressivamente nonostante fossero tutti vittime di una catastrofe che aveva spazzato via le loro case, i loro lavoro e ogni loro sicurezza. Il loro unico obiettivo era ricostruire le proprie vite il più velocemente possibile e conservare l’ottimismo nel farlo.
Sono onorata di essere stata parte di questa ricostruzione, anche se in misura molto piccola.
Dopo quattro anni di lavoro nelle relazioni internazionali a Washington, DC, ho deciso che volevo vedere il mondo invece di sentirlo raccontare dagli altri. Armata di un biglietto di sola andata, dei brutti sandali da trekking e una discutibile combinazione di pantaloncini e magliette, ho mollato casa e lavoro e ho cominciato a viaggiare da sola in Asia.