Luca Ceriani è un dottorando in Ingegneria Informatica presso l’Università degli Studi di Brescia. Lo conosco bene perché, come me, viene da una piccola cittadina in provincia di Mantova, Castel Goffredo. E come me dopo gli studi universitari ha lasciato l’Italia, anche se – non faccio fatica ad ammetterlo – con risultati ben diversi. Infatti, mentre io sono finito a dimenarmi tra i ratti e le vacche sacre degli slum indiani, lui si è diretto nella mecca delle tecnologie digitali, la Silicon Valley. Nel corso del suo dottorato Luca ha trascorso un anno presso lo Xerox PARC di Palo Alto, in California. E il PARC, nel caso qualcuno non lo sapesse, non è esattamente un centro di ricerca qualunque. Oltre ad essere uno dei più importanti centri per lo sviluppo delle tecnologie che intasano la nostra quotidianità, è al centro di un capitolo di storia che ha cambiato per sempre la vita di miliardi di persone. Nel 1979 Steve Jobs fa visita al PARC dove vede per la prima volta icone, finestre, mouse, menù a tendina e molte altre innovazioni rivoluzionarie. La Xerox intenterà causa – senza successo – a Jobs per violazione del copyright e l’episodio non ha ancora finito di alimentare voci e controversie sulla paternità di alcuni degli elementi fondamentali della rivoluzione dei personal computer.
Insomma, come sei finito da Brescia al PARC di Palo Alto?
Prima di accettare il dottorato avevo preteso una clausola, volevo cioè trascorrere un anno all’estero. Senza questa esperienza non davo al dottorato lo stesso valore. Durante un workshop in Israele, la mia referente universitaria ha incontrato un ricercatore di sua conoscenza, Johan De Kleer, che è considerato il padre fondatore del nostro settore. Le ha subito detto “mandalo da me”. Durante il nostro colloquio su Skype mi ha chiesto quali fossero i miei progetti, sembrava distaccato ma ben presto mi sono reso conto che mi stava studiando, e a quanto pare l’avevo convinto: in pochi istanti mi ha dato l’ok e mi sono messo al lavoro per sbrigare le pratiche necessarie.
L’intervista su Skype ha avuto luogo a ottobre, la partenza era prevista per gennaio. Non c’era molto tempo per prepararsi…
Il problema principale è il visto. Io avevo bisogno di un visto di studi per svolgere ricerca, che viene rilasciato solo a seguito di un colloquio. Mi sono rivolto al consolato di Firenze perché quello di Milano aveva dei tempi di attesa troppo lunghi, e in realtà il colloquio si è risolto in una breve chiacchierata molto banale. Il PARC mi aveva inviato un modulo necessario per la richiesta del visto, che costa circa 100 euro ed è valido per un anno, con la possibilità di estenderlo fino a cinque.
Adattarsi ad una realtà così diversa con un tempo di preparazione così limitato non deve essere stato facile.
Durante il corso di laurea specialistica avevo trascorso un anno in Irlanda con il progetto Erasmus, ma in California è stato molto diverso. Durante l’Erasmus sei inquadrato in mezzo a molte altre persone, nel corso di un dottorato invece ti ritrovi da solo. Inoltre vieni da un’università di provincia e capisci subito come funziona un centro di ricerca di importanza mondiale. Lì tutte le idee sono valide, non se ne scarta nessuna, anche se poi la messa in progetto rivela che la maggior parte non sono attuabili.
Come ti mantenevi in California?
L’università di Brescia mi dava circa 1500 euro al mese. A me, abituato alla situazione italiana, sembrava molto, ma i miei colleghi in California erano stupiti che ricevessi così poco. Inoltre la vita nella Silicon Valley è molto cara. E io sono stato fortunato, perché di affitto pagavo “solo” 600 dollari, per una stanza singola in un appartamento condiviso con altre quattro persone a Mountain View. Pagavo di meno perché avevano sistemato due persone nel soggiorno. Un affitto medio costa infatti tra i 900 e i 1000 dollari al mese.
600 dollari solo per l’affitto… ma almeno ogni tanto mangiavi?
Il cibo è forse la principale nota dolente. Sapendo cucinare l’essenziale un po’ me la cavavo, ma in generale tutto quello che è buono fa male, e quello che fa bene fa schifo. A casa mangiavo pasta e carne, fuori andavo avanti a burritos che compravo in una catena di piccoli supermercati dove c’è anche un angolo fast-food. Perché altrimenti per un hamburger e una birra fuori non te la cavi con meno di 35 dollari.
Dove altro hai speso il tuo “ricco” assegno di ricerca?
Viaggiavo molto: San Francisco, Los Angeles, Las Vegas, Tijuana, Yosemite, Gran Canyon… Sono rimasto stupito nel trovare una folla di gente anche al Parco Nazionale di Yosemite, in mezzo alla natura. Los Angeles non mi è piaciuta, una città sterminata fatta solo di traffico. A Las Vegas ci sono andato da solo per tre giorni, poco prima di partire. Stavo preparando la tesi e volevo staccare, ed è proprio la città giusta per tre o quattro giorni di divertimento, non di più. É lì che ho mangiato il cibo migliore, c’è qualunque tipo di cucina e fanno a gara per primeggiare.
Ti sei trovato bene in mezzo a tutti quei cervelloni?
Ho conosciuto molte persone, gente simpatica e disponibile. L’impressione però è sempre che la gente sia lì per lavorare e dedica poco tempo per approfondire la conoscenza degli altri. Però parli con chiunque, la gente ti rivolge la parola anche mentre attraversi la strada, e qualche volta si fanno degli incontri un po’ strani. Ad una fermata dell’autobus un veterano del Golfo ad un certo punto mi chiede “vuoi venire a sparare con me?”. Ma non ho mai avuto davvero paura per la mia sicurezza, anche perché abitavo in una zona piuttosto ricca. Era strano trascorrere la quotidianità in totale tranquillità e poi magari leggere sul giornale che a poche miglia di distanza invece si erano sparati.
Ti mancava qualcosa della tua vita in Italia?
Mi mancava il modo di scherzare tra noi, gli sfottò. Molte persone non avevano proprio senso dell’ironia. Una volta mi stavo mettendo d’accordo per incontrarmi con una mia compagna di appartamento, una ragazza coreana, e quando lei mi ha chiesto dove ci saremmo visti io le ho risposto per scherzo “sul tetto”. Lei è andata davvero sul tetto ad aspettarmi, poi però quando le ho detto che scherzavo non se l’è presa.
Ti è mai passato per la mente di fermarti in California definitivamente?
Vivrei lì per qualche anno, ma non per sempre. Non riesco a percepire come casa un luogo in cui sono andato per ricercare una crescita personale. E comunque mi sono reso conto che l’America non è poi così lontana e irraggiungibile, anche se la Silicon Valley non è proprio l’America, è un mondo multiculturale e molto particolare.
Cosa vorresti portare in Italia della tua esperienza negli Stati Uniti?
La loro forza di spirito: non si abbattono mai. E credono molto nella necessità di migliorare continuamente sé stessi. E poi invidio loro la capacità di creare opportunità di business dal nulla.
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.