Val la pena andarle a vedere le Islas Ballestas? L’autobus a due piani della Cruz del Sur partito da Lima in Peru è pieno di ventenni e per il ragazzo francese occhialetti da intellettuale con cui ho attaccato bottone non esisto più non appena una bionda tedeschina si siede al suo fianco, proprio come in Europa asse Francia-Germania e l’Italia solo se non c’è di meglio.
La Panamericana Sur corre per lo più lungo la costa, tutto un deserto ipnotico, gli unici colori sono quelli dei cartelli che segnalano Propiedad privada o Urbanizacion tal dei tali, ma che se ne fanno della proprietà di una collina di sassi e sabbia e, soprattutto, chi ci vive in queste urbanizacion fatte da catapecchie di mattoni e lamiere che sembrano completamente vuote? Poi all’improvviso finisce il nulla e ti trovi in mezzo a grandi vigneti verdissimi e ben tenuti, è incredibile come l’acqua di un torrente fangoso possa far fiorire il deserto, siamo a Pisco, principale centro di produzione dell’omonimo liquore similgrappa e di un inaspettato ingorgo stradale, poi di nuovo rettilinei nel deserto e quando cominci a disperare vedi il cartello Paracas, finalmente.
Il porticciolo di Paracas è già affollato alle sette del mattino, tutti in attesa di partire per le isole, uomini dei tour operator indaffarati a controllare le liste dei propri clienti, file che si formano e si disfano – no voi siete sull’altra barca – giubbotti salvavita arancio fluo – si parte, tutti seduti – trenta secondi – delfini! – tutti in piedi, acrobazie per scattare qualche foto, si riparte, tutti seduti – tenete i cappelli – e questa volta si parte davvero.
Dieci minuti e siamo davanti al famosissimo Candelabro, una specie di cactus – scavato nella roccia non disegnato con file di sassi come le linee di Nasca – precisa Lucio, il cicerone della nostra barca, e va avanti a dire quando è stato fatto (probabilmente), da chi (non si sa bene), perché (ancora meno), e sta lì immobile nei secoli perché qui cadono due millimetri d’acqua all’anno, una goccia e una sola per centimetro quadrato, e questa è l’unica cosa sicura.
Venti minuti di gara con gli altri motoscafi, i cappelli bisogna davvero tenerli, ed eccole le isole: in basso una linea di rocce scure tormentate da onde spumose, più in alto dossi bianchi sporcati da grandi macchie nere, queste so cosa sono, migliaia, centinaia di migliaia di uccelli ammassati sui loro nidi ma fa comunque un certo effetto vederli dal vero. Fa sicuramente un effetto più tangibile la puzza di pollaio che ci avvolge a ondate, se non siete mai stati in un pollaio andate alle Ballestas e capirete cosa voglio dire.
Ci sono più di duecento specie di uccelli stanziali o di passo su queste isole ma Lucio fa notare, tutti in piedi a guardare in alto, tra le migliaia di gabbiani, sterne, pellicani, sule e cormorani, quattro intrepidi pinguini di Humboldt in cima alla scogliera, ma come hanno fatto a salire lassù? I pinguini si stavano estinguendo perché scavano il nido nel guano degli altri uccelli, non sono molto schifiltosi pare di capire, una volta il guano era alto metri poi quando hanno cominciato a raccoglierlo a tonnellate per uso agricolo e militare i pinguini hanno perso i loro nidi, adesso però pare siano in ripresa perché il guano viene raccolto ogni otto anni e la raccolta è strettamente controllata.
Distese di cormorani neri sui tratti pianeggianti, sule dal collo bianco in fila su ogni cornicione, pellicani sussiegosi immobili tra i sassi del pendio, sterne becco rosso appollaiate ovunque, voli acrobatici sulle nostre teste, un andirivieni continuo, il mondo del cielo è tutta una frenesia ma loro, loro no, hanno altro a cui pensare e se ne stanno stravaccati sulle rocce a prendere il sole, i leoni marini, una invidia. Sulla barca lotta di cellulari, scontri di selfie-stick ma loro tranquilli, non muovono un baffo, sembrano animali di pelouche, quelli che piacciono tanto ai bambini e non solo.
Ma, come sempre, non tutti hanno tempo da perdere e sulla spiaggia sassosa del reparto maternità e asilo nido è tutto un traffico di frugoletti neri dentro e fuori l’acqua della riva – ti ho detto di uscire! – ancora un po’ mamma – una se lo va a riprendere il proprio cucciolo, un’altra si è arresa e guarda rassegnata, un’altra cerca di bloccare infastidita le avances di un dongiovanni impenitente, nell’ombra lugubri avvoltoi dalla testa rossa aspettano pazienti l’occasione. E così va la vita sulle Islas Ballestas.
Ritorno a tutta, c’è un altro turno che aspetta impaziente, ma lo sapete che gli uccelli, che siano in fila indiana o in formazione a vi, gruppetti ciarlieri o solitari immusoniti, tutti volano più veloci del nostro motoscafo?
Val la pena vederle le Islas Ballestas? Tra poco parte il giro delle dieci, affrettatevi, la fila è già lunga.
- Il mio ospite mi ha spiegato che in genere Urbanizacion vuol dire occupazione preventiva e abusiva di suolo pubblico da parte di povera gente organizzata in cooperative in attesa di una sanatoria con le prossime elezioni, tutto il mondo è paese, ed è per questo che chi la terra la possiede già lo fa sapere con i cartelli Propiedad privada, non si sa mai.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.