E dopo fiumi, cascate, lagune e ghiacciai è il giorno del fuoco, in Islanda. Sul palo segnaletico la scritta Krafla.
Dove andiamo? Mio fratello, con la scusa di non volersi rovinare la sorpresa ha lasciato a me tutta l’organizzazione del viaggio e glielo devo pure spiegare, andiamo a vedere i resti di un’eruzione, e quelli? indicando i getti di vapore più davanti, quelli provengono dalla Krafla Power Station, sfruttano l’energia geotermica ma a noi non interessano, almeno una foto me la fai fare?
Viti crater
Al Viti crater siamo i primi: giacca a vento, macchina fotografica e via sul sentiero che sale a destra.
Il lago sul fondo del cratere è di un azzurro irreale, sembra dipinto, sui fianchi non un filo d’erba o un ciuffo di muschio, solo terriccio scuro e residue macchie di neve sporca. Nell’avvallamento subito dietro un altro laghetto e un ruscello: “guarda è caldo, fuma” – per forza, Viti vuol dire Inferno in Islandese, comunque aspetta e vedrai il resto.
Leirhnjukur
I campi di lava di Leirhnjukur, due minuti di macchina dal Viti e un sentiero che taglia una distesa di rocce nere ammorbidite da una trapunta di muschi e licheni per arrivare a una collinetta di argilla color ocra. Da una ferita sul fianco escono nuvole di vapore.
I bordi sono screziati di zolfo e gesso, qualche gradino di metallo ed ecco una piattaforma nuova di zecca sopra il posto più caldo dei dintorni: sul fondo della vallecola, pozze di acqua bollente, fango grigio che borbotta come una pentola sul fuoco, un laghetto che potrebbe essere di calce viva se non fosse per la patina azzurrognola, sul terreno giallo buchi azzurri come le tane nella sabbia dei granchi di tanti documentari, o sono le orme di un troll in cerca di tepore?
Ma non è finita qui.
Attorno alla collina chiara c’è un mare nero, è la lava dei Krafla fires, un’eruzione durata nove anni e terminata nel 1984. In pratica un museo della lava a cielo aperto: ci sono montagnole fumanti di scorie di carbone, poi placche lisce come gettate di calcestruzzo, poi un caos di rocce che si scontrano, si inarcano, si rompono.
Un mondo alieno se non fosse per i tenaci licheni grigi e per alcuni cespetti di intrepidi fiorellini rosa, e di nuovo colate che si allargano come polenta sul tagliere, fessure zigzaganti che si aprono improvvise sotto i piedi, spruzzi di lava rossastra solidificatasi attorno a bocche che esalano vapori portati via dal vento.
Se l’Inferno è così non è poi così brutto. Una crepa profonda, sarà quella che divide le due placche tettoniche? Foto con un piede sulla placca americana e l’altro su quella europea, no, l’America non è a destra, è a sinistra, tutto gli devo spiegare.
Torniamo sulla 1, la Hringvegur, dove ci dobbiamo fermare? Non ti preoccupare, lo vediamo, un paio di chilometri e se non bastassero gli sbuffi bianchi di vapore la ressa di autobus turistici ci conferma che siamo al famosissimo sito di Hverir.
Hverir
La spianata ai piedi della collina giallo ocra è avvolta da vapori che si perdono nel vento.
La piattaforma di fianco al parcheggio è invasa da ondate di turisti e scariche di flash.
I paletti segnalano un percorso sicuro tra fontane di fango grigioazzurro in continua ebollizione e pozze azzurrognole semiasciutte circondate da aloni giallo zolfo e macchie biancastre, rigagnoli bollenti evaporano su croste di fango secco.
Sul terreno macchie multicolore si allargano e si fondono come in un grande acquerello astratto. Le silhouette delle persone nella nebbia fanno da contrasto e danno il senso della misura.
Sul Namafjall, la collina lì dietro non c’è nessuno, vuoi salire? io no risponde lui, e tu? No, l’ ho già visto in internet (l’ho già visto in internet? è per questo che non voglio salire? che abbia ragione mio fratello?).
In attesa del nostro turno per la foto di rito accanto al camino di pietre da cui esce con forza un getto di vapore bianco, è impressionante il contrasto tra il gelo del vento e il calore della terra.
E i geyser dove sono? calma, non sono qui, tra qualche giorno li vediamo.
Che il posto sia famoso lo si capisce subito dal traffico, più macchine e autobus da Pingvellir a Geysir che in dieci giorni a zonzo per l’Islanda.
Geysir
Il sito sembra più un parco giochi che una meraviglia della natura: alberghi, ristoranti, bar.
Si attraversa sulle strisce pedonali e si prosegue su un vialetto piastrellato seguendo la folla attraverso una specie di prato inondato con tanto di erbe e fiori da cui esalano ondate di vapore solforoso. Ma anche pozze di acqua bollente, rigagnoli fumanti, bimbi bloccati all’ultimo istante prima di immergerci le mani, e già si sente il tonfo acquoso del geyser più avanti ma non è il vecchio Geysir, eponimo di tutti i geyser del mondo, lui non erutta più, ridotto a una vasca d’acqua fumante osserva stanco la pantomima del più giovane Strokkur.
Prima qualche ondina sull’acqua ferma, mormorio della folla, poi un rigurgito improvviso, la folla rumoreggia, ha fatto una finta, poi all’improvviso una bolla blu emerge al centro della vasca e un’esplosione improvvisa lancia verso il cielo una colonna d’acqua per la gioia di grandi e piccini (quelli sottovento un po’ meno perchè il cellulare si è bagnato, anche il mio.)
Per distinguermi dalla folla mi sono un pò spostato, la foto della colonna bianca contro le nuvole bianche non è venuta granchè, molto meglio quella di mio fratello intruppato nella folla esultante. E sì che mi ero documentato in internet, attenzione al vento!
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.