Passeggiate romane: un viaggio insolito nella capitale – II parte

Il mio secondo giorno nella capitale incomincia con un’escursione in una zona di Roma ancora poco conosciuta ed esplorata: Pietralata. Ci arrivo con la metro B e cammino per un bel pezzo lungo l’arteria principale che prosegue fino alla circonvallazione Nomentana. Palazzine alte e anonime alternate a casupole adiacenti a officine meccaniche e pompe di benzina, microscopici bar con tavoli di plastica che si affacciano direttamente sulla strada, piccoli negozi di alimentari e pezzi di terra incolti.

L’impatto con la periferia romana non è però negativo, anzi, l’ambiente sembra tranquillo: la gente sorride e si ferma a chiacchierare e dalla strada principale sbucano viuzze che conducono a complessi residenziali ariosi e verdeggianti.

Continuo a camminare: fabbriche, autolavaggi, concessionarie d’auto. E poi un piccolo diamante incastonato tra le lamiere: il Lanificio Factory, un enorme capannone dismesso riconvertito a spazio culturale. Danza, musica e buona cucina riuniti in un ex lanificio in via di Pietralata, a ridosso dell’Aniene. Il ristorante occupa l’intero piano terra e colpisce per la cura del dettaglio: imponenti vetrate che si affacciano sul fiume, biciclette d’epoca, lampade di design, una poltrona da barbiere, una vasca da bagno e una schiera di oggetti ripescati dal passato, armoniosamente sistemati a creare un ambiente inconsueto e al contempo raffinato. Il lato estetico non prevarica però l’attenzione rivolta verso un’alimentazione sana e consapevole, confermata dalla presenza di piatti biologici e vini biodinamici.

Mi inoltro al piano superiore e scopro con piacere che è interamente dedicato ad un centro internazionale di danza e arti performative. La voglia di indossare le scarpette, curiosando tra le aule ampie e luminose, è quasi irrefrenabile. Il terzo piano è un open space luminoso dedicato a varie attività di laboratorio mentre, tornando al piano terra, scopro che ospita anche una discoteca, momentaneamente trasferitasi in zona San Lorenzo, per una serie di iniziative legate al periodo estivo.

Mi allontano dall’ex lanificio e pochi metri più avanti m’imbatto in un altro riuscito esempio di riqualificazione di uno spazio industriale in disuso. Si tratta del Fish Market, ovvero il mercato del pesce che è anche ristorante e che ha deciso di attecchire proprio accanto a un’officina meccanica. Il proprietario mi spiega gentilmente il funzionamento del locale che ha adottato la formula economica del mercato, offrendo al cliente la possibilità di scegliere il pesce direttamente dal bancone, indicandone al momento il tipo di cottura e consumandolo poi al tavolo. Il posto è aperto solo di sera.

Autobus, metro e rieccomi in centro, a godere finalmente dell’ombra di una palma di Villa Torlonia, sulla via Nomentana. Decisamente rigenerata dal fresco contesto, mi dirigo alla volta di Piazza Vittorio. Questa zona ha l’odore e il colore delle mille spezie e degli introvabili ortaggi che ogni mattina vengono ordinatamente disposti sui banchetti del mercato poco distante, un viavai di gente di ogni nazionalità, cultura e religione, riunita in un ampio spazio adibito alla vendita di specialità locali e importate.

Un pezzo d’Asia sembra essersi trasferito da queste parti, innestando usi, costumi ed esercizi commerciali in una parte di Roma che narra di un passato benestante e aristocratico, testimoniato dai bellissimi palazzi che si succedono elegantemente sino alla Stazione Termini.

Il posto è perfetto per soddisfare al meglio la mia autentica passione per la cucina indiana. Scelgo l’Indian Fast Food, posto frequentato appunto da indiani, da splendide donne in sari di cotone che consumano il pasto con i propri mariti e con bambini dagli occhi nerissimi. I tavoli in formica, le canzoni in hindi, le luci al neon, le pale del ventilatore sulla mia testa, la statuina di Ganesha devotamente ornata con luci colorate mi fanno sentire proprio come fossi in India. Pollo tandoori e riso basmati con verdure, curry, curcuma e chili. Samosa ancora sfrigolante di frittura tanto saporita da leccarsi le dita. Chutney di menta e coriandolo per arricchire il tutto e suggellare definitivamente il desiderio di trasferirmi in quella parte di mondo.

Mi sposto con i mezzi per raggiungere un’altra parte di questa poliedrica metropoli, dai mille affascinanti volti, a tratti ipnotici per l’incantevole e immutabile bellezza. Percorro a piedi un breve tratto del lungotevere Aventino, per poi intraprendere l’inerpicata salita che mi conduce fino al paradiso verde e arancio di Parco Savello. Conosciuto come il Giardino degli Aranci, questa piccola e discreta oasi di relax offre anche un’incantevole visione panoramica della città. Mi distendo sull’erba e, tra una pagina e l’altra del mio bel libro, mi godo l’imperitura e rasserenante visione impressionista che questo magico posto mi riserva: mamme e papà con passeggini, giovani innamorati adagiati sulle panchine, nonni che giocano coi nipotini, ragazzi e ragazze che leggono, ridono, studiano e si ritagliano del tempo per starsene tranquilli.

Accanto al parco, la Basilica di Santa Sabina trapela spiritualità. Risalente al 422, ampliata e restaurata nei secoli successivi, conserva l’imponente portale di legno di cipresso intagliato, originale del V secolo, costituito da diciotto pannelli raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. Alle spalle della chiesa un chiostro duecentesco ospita aranci che la leggenda vuole essere stati piantati da San Domenico in persona.

Poco distante mi inoltro nel profumato Roseto Comunale, dove infinite varietà di questo fiore sensuale si sporgono da curatissime aiuole e vialetti. Mi avvicino allo spruzzo d’acqua dell’erogatore automatico e mi riempio i polmoni di quella piacevole nebbiolina umida, pronta ad affrontare l’ultimo accaldato tratto in direzione Ghetto.

La più antica comunità ebraica europea tuttora esistente s’insediò a Roma intorno al II secolo a. C. e, ancora oggi, si racchiude attorno all’animata via Portico d’Ottavia. La bolla papale del 1555 costrinse gli ebrei a vivere confinati in questa zona, inaugurando una disgraziata epoca d’intolleranza e persecuzione, che si sarebbe prolungata fino alla storia più recente e sconcertante dello scorso secolo. Tale segregazione ebbe un solo aspetto positivo: l’identità religiosa e culturale della comunità ebraica si è mantenuta forte e intatta. Le stradine anguste e le piazzette ospitano ancora antiche botteghe artigiane, panetterie kasher e trattorie rinomate, dov’è possibile assaporare sapori tipici di questa cultura, perfettamente integrati e mescolati con ingredienti della cucina romana.

Particolarmente interessante il piccolo Museo del Louvre, in via della Reginella: un archivio fotografico impressionante e una piccola galleria con autentici tesori in bianco e nero.

Mi congedo dal Ghetto Ebraico acquistando dei panini tipici chiamati ossi da un piccolo forno tradizionale e poi, cominciando ad avvertire la stanchezza, mi avvio verso il Campidoglio per un saluto alla città.

Roma mi accompagna con tutta la sua grazia, la sua storia e la sua imponente vitalità lungo la gloriosa via dei Fori Imperiali, conducendomi al cospetto dell’amichevole gigante Colosseo. Io rispondo con un sorriso beato e mi accomiato da lei con un lungo sguardo che abbraccia l’intero spettacolo di queste inestimabili rovine illuminate dalla calda luce che precede di poco il tramonto.

Ma, prima di dedicarmi alla chiusura delle valigie, seduta sul tram che mi riporta al Pigneto, la mia attenzione viene colta da quella che è universalmente riconosciuta come un’autentica istituzione nel settore del gelato artigianale: la storica gelateria Fassi, in via Principe Eugenio, dove allegramente mi dirigo per lenire con dolcezza la lievissima venatura malinconica che accompagna questo splendido arrivederci.

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