In viaggio alla scoperta delle cinque capitali dell’antico Regno di Birmania

In Birmania ogni re voleva la sua capitale, non si può spiegare diversamente il fatto che nel raggio di una dozzina di chilometri attorno a Mandalay ci siano i resti e i monumenti delle antiche capitali di Amarapura, Inwa, Mingun e Sagaing e forse ne ho dimenticata qualcuna. Il problema è che in due giorni la nostra guida ci ha portati in giro come due trottole e ci siamo persi tra palazzi reali vuoti, pagode nere, stupa diroccati, fiumi esondati e colline boscose, e hai voglia a ricostruire il percorso.

Grossomodo è andata così.

Primo giorno

La guida che ci aspetta all’uscita dell’aeroporto a Mandalay è un quarantenne dallo sguardo riservato e dal sorriso timido, si chiama Aung più altri tre nomi che non ricorderò mai – visiteremo le antiche capitali della Birmania, ci dice – perché, quante ce ne sono?

Per prima cosa andiamo ad Amarapura a vedere il pranzo dei monaci – ma noi non ci vogliamo andare, abbiamo letto di che si tratta ed è un po’ come fare i guardoni – no, non è uno spettacolo per turisti, è vita reale, insiste Aung più altri tre nomi che non ricorderò mai.

Ed eccoci qua: da una parte i monaci, saio rosso cupo, dall’altra le monache, tuniche bianche, sono tutti giovanissimi e col capo rasato, se non fosse per il colore delle vesti non riusciresti a distinguere gli uni dalle altre. Il cibo viene distribuito da donne, in genere sono mamme o parenti dei monaci ci spiega Aung, poche foto e tanta vergogna, siamo poco invadenti ma pur sempre turisti ficcanaso.

In macchina su una strada allagata, poi in barca sul fiume: al pontile d’arrivo ragazzine in attesa dei turisti, risate allegre e timidi tentativi di vendita – andiamo – dove? – a Inwa. E via su un carrettino tirato da un docile cavallo, i due ragazzini più tosti, un lui e una lei, ci seguono in bicicletta, ridono e scherzano con la nostra guida.

Un gruppo di stupa tra le palme, il cartello dice Yadana Hsemee pagoda complex, hanno un cuore di mattoni rossi, lo stucco bianco è ormai quasi tutto caduto, una statua di Buddha ai piedi di un albero enorme, sei colonne inquadrano un altro Buddha sullo sfondo di risaie, molti stupa terminano con un ornamento dorato – è il hti, un simbolo di buon auspicio – e via di nuovo col carretto fino a un monastero tutto nero3 – è legno di teak, non si trovano più tronchi così grandi in Myanmar, sono stati tagliati tutti – bambini sbirciano curiosi dalle porte, sono della scuola gestita dai monaci.

Ancora sul carretto per stradine di campagna fino a un monastero giallo e nero, nome lunghissimo4 e silenzio inquietante, non c’è nessuno, poi mura diroccate, altri stupa in rovina, calura di mezzogiorno, luce fastidiosa, scossoni sulla schiena indolenzita, stanchi, alla fine l’ombra degli alberi del ristorante Ave Maria. Ave Maria? Sì, si chiama così.

Rinfrescati e rinfrancati, pronti per il pomeriggio. In macchina su per una collina boscosa, Sagaing Hill –anche questa era una capitale? – sì per pochi anni nel Settecento. Pagode bianche tra il verde degli alberi lungo il crinale della collina, luccichio di hti dorati giù giù fino all’Irrawaddy che ha allagato la pianura, fiori rossi nel vento leggero, panorama da fiaba.

Il pavimento attorno alla pagoda è tutto a piastrelle dai colori pastello, all’interno donne inginocchiate pregano un grande Buddha impassibile, tutto luccica di nuovo, anche le quattordici (14!) cassette per le elemosine. Poche centinaia di metri, altro tempio o meglio una galleria curva tutta sui toni del verde con una sfilata di Buddha bianchi e oro tutti uguali6 .

Ma quanti sono? Una scolaresca di monache-bambine vestite di rosa sfila sulla terrazza davanti alla galleria – poverette, mi fanno un po’ pena – dice mia moglie, in effetti c’è chi ride come tutti i bambini e chi ci indica con fare scherzoso, sono probabilmente fortunate ad avere chi si prende cura di loro ma ti senti ancora una volta un po’ a disagio.

Secondo giorno

Il nostro battello è ormeggiato in terza fila, quella più lontana dalla riva, per arrivarci una passerella che sprofonda al mio passaggio e come corrimano una canna di bambù che trema solo a guardarla, mia moglie ovviamente ha la mano di un ragazzo che l’accompagna. Vento forte e onde nervose sull’Irrawaddy, mezz’ora per attraversarlo e arrivare a Mingun.

Davanti all’imbarcadero due rocce enormi – sono di mattoni, erano i due leoni di guardia della pagoda, ci dice Aung – c’è la coda manca la testa, ma ad attirare l’attenzione è l’enorme cubo di mattoni pieno di crepe – la pagoda non è mai stata finita per via dei terremoti – si può salire? – no,  è pericoloso – difatti sono “solo” una dozzina le persone che salutano dalla cima ma la moglie non concede il permesso.

Ogni tanto si sente una campana, poche decine di metri dalla pagoda – è la Mingun Bell, la campana più grande del mondo – donne e bambini si divertono a suonare con un batacchio di legno, mi diverto anch’io, ho il permesso della moglie.

Ultima, inaspettata, una pagoda tutta bianca a forma di torta nuziale – i sette anelli ondulati rappresentano le sette catene montuose che circondano il monte Meru della mitologia buddista, racconta Aung rassegnato a mia moglie, io sono già salito a fare foto, troppo bello il contrasto col cielo carico di nubi nere. Al baracchino dove ci fermiamo a mangiare tutti salutano la nostra guida con deferenza, non ci dice molto, mi sembra di capire che è stata una persona importante nel periodo delle manifestazioni contro il regime militare.

Nel pomeriggio Mandalay, ultima capitale del regno birmano. Non sta scritto nel contratto ma s’ha da fare, prima la fabbrica delle foglie d’oro che vengono applicate sulle statue e sui monumenti di tutta la Birmania, mia moglie osserva attenta un atletico giovanotto che le sta martellando per renderle sottili, comperate, poi una fabbrica di marionette dove tre ragazze lavorano sedute attorno a un tavolo, un’altra dorme sotto il tavolo, non credo esistano i sindacati in Myanmar, comperate (le marionette).

E dopo cosa abbiamo visto? chiedo a mia moglie, sguardo assente, poi – ah, la pagoda dove ti hanno fatto mettere il gonnellone – si chiama longyi – quello dove c’è la statua di Buddha tutta d’oro che le donne non possono toccare10, tutti maschilisti a questo mondo. Dopo la pagoda, per farla breve, di sicuro abbiamo visto un’altra pagoda con tante cappelline bianche contenenti lastre incise con testi buddistici11, un altro monastero nero in legno di teak12, bello, il palazzo reale che sembra il set abbandonato di un film, e infine il tramonto dalla Mandalay Hill.

E questo me lo ricordo bene, alberi fioriti di rosso e guglie dorate verso Mandalay, risaie verde tenero e Irrawaddy esondato dall’altra parte, accovacciati per terra quattro giovani monaci parlano sorridenti con due altrettanto giovani turiste, non c’è tramonto che tenga.

1 Mahagandayon Monastery – 2 Myitnge River – 3 Bagaya Kyaung – 4 Mahar Aung Mye Bon San Kyaung – 5 Soon U Ponya Shin Pagoda – 6 U Min Thonze Caves – 8 Mingun Pahtodawgyi – 9 Hsinbyume Pagoda – 10 Mahamuni Pagoda – 11 Kuthodaw Pagoda – 12 Shwenandaw Monastery

1 commento su “In viaggio alla scoperta delle cinque capitali dell’antico Regno di Birmania”

  1. la consueta semplicità e la completezza dei dettagli rendono sempre avvincente i racconti di Luigi, entusiasmanti ed originali come i suoi viaggi. E spesso sembra di essere compagni dei suoi viaggi insieme a lui e alla simpatica moglie. Bravi attendo altre tappe

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