Ero in Malawi, in un angolo di paradiso chiamato Nkhata Bay. Dopo un periodo di idillio sconvolgente cullato dalle onde del lago su cui si affaciava la mia camera, Eddy – il barista dell’ostello – mi ha salutato chiamandomi “my brother from another mother“, frase che riassumeva tutta la fraterna ironia che mi aveva avvolto durante il mio soggiorno. Sarei rimasto, ma non sapevo pescare, né coltivare la terra, né intagliare il legno. Ero tagliato fuori dalle sole tre occupazioni con cui questa comunità sopravvive. Inoltre ero un giornalista, che è sempre meglio che lavorare.
Così ho preso la nave. Il lago Malawi è una via di comunicazione dal traffico abbastanza intenso, e dopo aver trascorso gran parte del mio ultimo viaggio con la faccia schiacciata tra il finestrino dell’autobus e il sedere di un altro passeggero ero felice di cambiare mezzo di locomozione. La nave partiva ad un orario imprecisato tra le sei e le otto del mattino e io avevo trascorso la serata a salutare gli amici con brindisi a base di rum. A svegliarmi è stata la sirena della nave, che per fortuna si sente per tutto il villaggio e richiama all’attenzione i passeggeri addormentati sotto qualunque tavolo.
Le operazioni di carico sono durate un paio d’ore, poi finalmente ci hanno fatto salire. La nave si sviluppava su tre piani, con in cima le cabine per chi aveva prenotato la prima classe. Io da bravo viaggiatore avventuroso mi ero accontentato della seconda e quindi le mie opzioni erano il ponte intermedio e la sala mensa, dove centinaia di altri passeggeri stavano schiacciati gli uni agli altri nel tentativo di ingannare l’attesa con una scomoda dormita. Per la maggior partre degli scali non attraccavamo nemmeno al porto – non c’era proprio un porto, per essere esatti – ma veniva calata una scialuppa su cui i passeggeri arrivati a destinazione erano accompagnati fino a riva. Io ogni tanto sfuggivo ai controlli e mi intrufolavo sul ponte superiore, riservato alla prima classe, per godere del paesaggio. Sfilavamo davanti a enormi colline che sembravano anch’esse galleggiare sull’acqua come balene ricoperte d’erba. Quando il nostromo mi ha scoperto ha detto solamente “se qualcuno ti chiede che ci fai quassù rispondi che non ti senti bene”.
Il viaggio è durato fino alle undici di sera, circa quindici ore. La mia unica compagnia era un vecchio romanzo storico in cui il popolo protagonista di una lunga epopea si dichiara padrone di una terra mai vista prima e comincia a trucidare senza pietà i suoi abitanti, per poi farsi trucidare con altrettanta veemenza dal dio di cui insiste a violare i comandamenti. Abbastanza divertente, ma per niente credibile. Al mio arrivo nel porto di Chilumba un anziano scaricatore mi ha urlato in faccia “ma tu sei straniero! Che ci fai qui?! Non andare in giro da solo, vai nella sala d’attesa!”, essendo la sala in questione un freddo capannone dotato di panchine di cemento. Il libro di prima mi è servito come cuscino molto meglio di quanto non fosse servito come lettura.
Alle cinque e mezza mi sono infiato in un minibus e sono arrivato alla stazione di Karonga, dove un paio di ragazzi in macchina mi hanno dato un passaggio fino a Mlakiz, l’ultimo avamposto prima del confine, una cava di fango con un paio di casette annesse. Da lì sono arrivato a piedi fino in Tanzania, di nuovo su un ponte oltre un corso d’acqua, di nuovo in pessime condizioni psico-fisiche verso un Paese di cui non conoscevo praticamente nulla. La mia destinazione era Mbeya, dove passa il Kilimanjaro Express diretto a Dar es Salaam.
Leggi la puntata precedente: Malawi, il cuore gentile dell’Africa.
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Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.