Sono troppi i templi di Bali e troppi quelli che meritano una visita per cui bisogna scegliere. In base a cosa? direte voi. Uno l’ho scelto per via delle foto troppo belle che avevo visto in internet, un altro l’ha scelto il nostro autista a nostra insaputa (sì anche a noi è capitato…), il terzo l’ha scelto mia moglie che voleva almeno una volta, a Bali, andare al mare, sempre templi e montagne ha bofonchiato.
Pura Ulun Danu Tamblingan, il tempio sconosciuto
Non ci ho mai portato nessuno, si scusa Komang il nostro accompagnatore fermandosi di nuovo alla ricerca di indicazioni. La strada principale corre in alto, da un lato si vede giù in basso il mare, dall’altro più vicini due laghi azzurro cobalto circondati da montagne verdissime, è incredibile come si passi in un paio d’ore dal sovraffollamento diffuso e dal caos frenetico di Ubud alla solitudine e al silenzio della natura.
Komang, il pirata secondo mia moglie, giovane, magrissimo, udeng colorato in testa e tre peli per baffi e pizzetto, mezzo addormentato per via del figlio di un mese e mezzo, e ne ha un altro di tre anni ha dovuto confessare sotto interrogatorio lungo la strada, ha finalmente trovato, al terzo tentativo, la deviazione per scendere al lago. Arrivati – sospira al parcheggio, un ultimo tratto a piedi lungo il sentiero nel bosco – è quello? chiede ansiosa mia moglie – ma l’acqua dov’è? rispondo io deluso. Le foto che mi hanno fatto sognare sono quelle di un tempio antico che emerge dall’acqua nera tra i vapori dell’alba ma in questa stagione il lago è basso e il tempio è circondato da stoppie secche, e per di più è quasi mezzogiorno, e splende il sole, mai guardare troppe foto in internet.
Un alto muro quadrato, erbacce rinsecchite sulle porte di pietra nera, all’interno tre torri di cinque, nove e undici piani, la paglia è vecchia e scolorita, le statue poche, niente ombrellini bianchi e gialli a rallegrare la vista, niente penjar a dondolare nel vento, niente cestini delle offerte ai piedi degli altari, il tempio vive solo in occasione di qualche festa immagina Komang – non ci ho mai portato nessuno prima di voi…
Ma con l’acqua intorno e la nebbia dell’alba il tempio sarebbe stato uno spettacolo.
Ulun Danu Beratan, il tempio del lago
Non era previsto e non l’avevo richiesto ma per Komang deve essere un riflesso automatico, turisti = Ulun Danu Beratan, ci vanno tutti, per cui sulla via del ritorno dal lago Tamblingan sosta al tempio più fotografato e più affollato di Bali, il tempio stampato sulla banconota da 50.000 rupie, il tempio dedicato a Dewi Danu, la dea delle acque.
Le costruzioni del tempio vero e proprio, uno dei nove templi direzionali di Bali, i templi che proteggono l’isola dagli spiriti maligni, sono sulla riva del lago ma i turisti non le degnano di uno sguardo, sono tutti presi dai due tempietti in acqua che, a onor del vero, sono molto fotogenici, soprattutto all’alba e al tramonto, un po’ meno alle tre del pomeriggio, con il meru di undici piani sottili e eleganti puntati verso il cielo.
Aqua bassa, un airone tra le ninfee attorno all’isoletta, turisti a frotte, noi compresi per la verità, foto di gruppo di una gita aziendale, ragazze musulmane col velo, risa e schiamazzi, foto alla statua del grande serpente d’acqua con le scaglie blu, ci sono anche due tigri in posa aggressiva come in Thailandia pronte per i selfie, nel prato dietro al tempio c’è uno stupa nero con due statue di Buddha scolorite, il solito mix religioso orientale, niente colori sfavillanti, niente selfie, ok, andiamo.
Il parcheggio è pieno, dov’è la nostra macchina? Vedi Komang? Ti ricordi la targa? No ma ha uno sticker col coniglietto di Playboy sul vetro posteriore, apperò Komang…
Pura Luhur Tanah Lot, il tempio del mare
Un altro tempio da cartolina e da folla variopinta. Un’isoletta rocciosa in riva al mare, in alto un piccolo tempio nascosto da buganvillee in fiore, con l’alta marea che lo circonda e le onde schiumose che lo frustano il tempio di Tanah Lot è la location perfetta per un matrimonio romantico, ma adesso è bassa marea, nessuna sposa in vista, in compenso decine di persone a vociare, ridere e fare selfie in allegria sulla riva di rocce scivolose, i turisti con scarpe sportive, i balinesi con le infradito, i bambini a piedi nudi a sguazzare nelle pozze.
Andiamo a vedere cosa fanno nella grotta sotto il tempio, propongo, io non vengo, non voglio bagnarmi i piedi, risponde lei, ti aspetto qui, poi quando torni mi comperi un aquilone per la nipotina? uno di quelli a forma di nave dei pirati che vende quel signore là, io non so parlare…
Nella grotta sotto il tempio sgorga incredibile una fonte di acqua dolce, ovviamente è una fonte sacra, e i bramini la usano per aspergere indù, musulmani, cristiani, buddisti, turisti, insomma tutti quelli che vogliono ricevere un augurio di vita felice e lasciano un’offerta. Dopo la benedizione con l’acqua sacra, il fiore di frangipani dietro l’orecchio e la tikka di grani di riso sulla fronte, selfie con un bramino pacioccone e il suo aiutante in photobombing. Al tempio non si può salire, è chiuso, ma le foto migliori si fanno comunque dalla spiaggia, la sunset beach, ovviamente noi ci siamo venuti al mattino.
Al ritorno tra la folla – ma hai già comprato? chiedo perplesso – sì, mi ha fatto segno uno a sette, io ho fatto segno uno a cinque e ci siamo messi d’accordo per due a dieci più questo uccellino di carta per altri tre euro, vedi si carica e vola, ti piacciono?
E meno male che non sapeva parlare.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.