Probabilmente ho perso un po’ delle mie capacità di persuasione perché solo quattro su dieci del nostro gruppo – non contando le due smorfiose che sembra stiano partecipando a un altro tour – hanno accettato di venire a vedere il tempio dei topi a Deshnoke, una trentina di chilometri da Bikaner.
Il tour del Rajastan prevede un pomeriggio di riposo, ma il tempio dei topi io ce l’ho in mente fin dall’inizio. Così prima convinco mia moglie, poi una coppia di amici di Brescia e un’altra della Toscana. Infine, e qui è stato più difficile, ho convinto il nostro accompagnatore – un bramino un po’ “schifiltoso” – ad accompagnarci con un pagamento extra. Ed eccoci qui, una guida riluttante e sei turisti ignari di ciò che li aspetta davanti all’ingresso del tempio di Karni Mata, una mistica indiana vissuta a cavallo tra il XIV e XV secolo ritenuta una reincarnazione di Durga.
Entrare nel mondo delle divinità indiane è per me un’impresa senza speranza, ma la nostra guida ci riassume il tutto dicendo che Durga è la rappresentazione delle forze divine del bene che combattono i demoni del male. Ci mostra una formella della porta d’ingresso del tempio, tutta di argento massiccio, dove la dea tiene in mano una testa appena mozzata, di demone suppongo. Ma non c’è niente che lasci intuire che cosa ci sia all’interno, la facciata di marmo bianco è tutta coperta da bassorilievi floreali, i topi cesellati sulle due finestre non si notano nemmeno, colpiscono invece gli elefantini azzurri sui pilastri delle porte.
Siamo gli unici occidentali in mezzo a visitatori e fedeli indiani, non molti per la verità, ma la guida ci dice, con tono distaccato, che durante le due principali festività che si tengono a marzo-aprile e settembre-ottobre qui c’è il pienone e una ressa di pellegrini. Prima di entrare la solita lezioncina introduttiva: questi topi, e solo questi, non sono venerati ma protetti, nutriti e rispettati perché si crede che tutti i charan, la casta di bardi e poeti a cui Karni Mata apparteneva, per sua intercessione si reincarnino nei topi del tempio senza passare dal giudizio di Yama, il dio dei morti, ed evitano così di reincarnarsi in forme di vita più degradate.
Sappiamo tutto, siamo pronti. Nel tempio non si può entrare con le scarpe, ma il bramino ci consiglia di provvedere in qualche modo alla sicurezza dei piedi ed eccoci qui pronti con i piedi infilati in volgari sacchetti di plastica o in professionali sovrascarpe azzurre che mia moglie, non si mai, aveva messo di nascosto in valigia.
Te lo aspetti, ma appena entri lo stupore ti blocca: topi ovunque, topi che corrono sulle mattonelle del pavimento, topi che entrano ed escono dai buchi dei muri, topi che spuntano dai tubi di scarico, topi che si arrampicano sulle colonne… Insomma, un andirivieni frenetico di code grigie e zampette rosa mentre sotto il portico un devoto dorme tranquillamente sdraiato per terra.
Un bramino riempie di latte un grande catino e subito decine di topi si accovacciano sui bordi per bere, qualcuno per essere sicuro ci si butta dentro. Più in là un altro catino pieno di un liquido bruno e stessa ammucchiata, in un angolo protetto da una inferriata altri topi si muovono freneticamente per sgranocchiare le palline di zucchero che i devoti offrono loro.
A proposito di palline: il nostro bramino ci dice un po’ disgustato che mangiarne una rosicchiata dai topi porta fortuna, ma il bambino che vedo furtivo raccoglierne una e inghiottirla non mi pare che lo faccia per questo motivo. Sei fortunato anche se un topo ti passa sui piedi, ma le tre donne del gruppo non la vogliono ricevere tutta questa fortuna e fanno di tutto per evitarla.
Il massimo è vedere un topo albino, questo sì che porta fortuna perché ce ne sono quattro o cinque su ventimila… Ventimila? E chi li ha contati? Ventimila devono essere perché ventimila erano i disertori dell’esercito del maharaja che, dice un’altra versione della fondazione del tempio, hanno preferito essere trasformati in topi da Karni Mata piuttosto che essere giustiziati per la loro diserzione. Ogni tanto c’è una moria, ma i buchi vengono subito colmati dalla naturale prolificità della specie e senza dubbio – anche se non ammesso ufficialmente – da topi dei dintorni che cercano di sfuggire a gatti e poiane entrando da clandestini in quello che è il paese della cuccagna.
Mentre parliamo di topi e di fortuna entra nel recinto del tempio un gruppetto di spagnoli giovani e chiassosi che fanno i bulletti a piedi nudi. Ridono e scherzano, ma dopo un paio di minuti si sente un grido soffocato e dal garbha-griha, la cella del tempio dove è posta l’immagine di Durga, uno dei bulletti esce di corsa mano sulla bocca. Onore al merito, riesce a resistere ai conati fino all’esterno del tempio.
I sorrisi di commiserazione e compatimento si sprecano. Entro anch’io, e solo io dei sei coraggiosi, nel garbha-griha e in effetti il caldo opprimente, l’odore fortissimo del burro con cui viene unta la statua di Durga e i topi che si arrampicano dovunque sono troppo, non ho preoccupanti stimoli esofagei ma un minuto è più che sufficiente.
Abbiamo visto con i nostri occhi qualcosa che per molti versi sfugge alla nostra comprensione, usciamo guardandoci alle spalle e tirando un sospiro di sollievo, ma mentre ci rimettiamo le scarpe ci diciamo “è stata dura ma ne è valsa la pena”.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.