“Ma questa non è India!”esclama mia moglie appena usciti dall’aeroporto di Chennai. In effetti Chennai, Madras fino al 1996, è ben diversa dalle città del Rajastan: niente folkloristici tuk-tuk ma taxi seriosi, niente bici che trasportano carichi degni del Titanic ma camion fumosi, niente strade piene di colori ma viali semideserti e impiegati frettolosi: insomma è quasi come essere in Europa.
Siamo atterrati a Chennai per andare a vedere i templi hindu del profondo sud dell’India, l’India dravidica che ha subito poca o nessuna influenza da parte dei conquistatori moghul. Abbiamo organizzato il tour con una agenzia indiana, un autista ci porterà di città in città e in ognuna troveremo una guida locale; tutto perfetto a parte la relazione che in ogni città scopriremo di dover fare al responsabile locale dell’agenzia: l’autista va bene? che valutazione gli date? e la guida? l’albergo è ok? per favore compilate il questionario.
Passata la sorpresa iniziale ci dirigiamo a sud verso Mahabalipuram e verso l’India così come uno se la aspetta. Tanti secoli fa, quando da noi calavano i Longobardi e finiva l’Impero d’Occidente, Mahabalipuram era un importante porto sul golfo del Bengala da cui partivano le navi verso tutto il SudEst asiatico. La sua importanza è testimoniata dai famosi templi, inseriti nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, che stiamo andando a visitare.
Appena arrivati non perdiamo un secondo – neanche in camera mi hai fatto andare, brontola mia moglie – e andiamo a vedere i templi rupestri, rupestri non perché costruiti sulle rocce ma perché costruiti proprio nelle rocce, scavati a colpi di martello e scalpello, una fatica improba visto che il granito è una delle rocce più dure della terra. Non c’è la guida, prevista per domani, per cui gironzoliamo fino a un grande masso rotondo in bilico su un pendio roccioso, i bambini lì attorno ci osservano stupiti. Più avanti tocca a noi restare stupiti davanti a una grande parete rocciosa tutta scolpita con elefanti, scimmie, una moltitudine di altri animali, donne serpente, umanità e divinità varie.
Su un cartello c’è scritto Ariuna’s penance, sulla nostra guida “La discesa del Gange“. Quale che sia il nome giusto è un monumento strano e misterioso. Lì attorno ci sono i templi, scavati in enormi massi levigati dal sole e dai monsoni, colonne sbozzate a martellate, stanze scavate nel buio della roccia. Le parti più interessanti dei templi sono i bassorilievi che illustrano scene e divinità del pantheon hindu, non sono finemente cesellati, la roccia non lo permette, ma le figure degli animali, elefanti e mucche in primis, sono assolutamente realistiche. Non ci sono cordoni di protezione o guardiani e tutti possono avvicinarsi, vedere e toccare. Le più toccate sono le mucche e le parti intime delle figure femminili.
L’albergo dà sulla spiaggia, quasi quasi facciamo un bagno ma il cielo plumbeo, l’acqua cupa e il vento fastidioso ci fanno desistere, è tempo di monsoni. Oggi c’è la guida, un simpatico trentenne carnagione scura e sorriso gentile. Ci porta al Shore Temple, che effettivamente è ancora vicino alla spiaggia, l’ultimo di sette templi che forse una volta esistevano a Mahabalipuram come potrebbe indicare il nome di Sette Pagode con cui Mahabalipuram era conosciuta dai marinai in antichità.
La prima impressione è un po’ deludente, un piccolo tempio sormontato da due torri piramidali a gradoni, tutto corroso dal tempo e dalla salsedine, pietre, statue e bassorilievi. La guida ci spiega che è della prima metà dell’VIII secolo ed è il primo tempio costruito con blocchi di pietra in tutto il sud dell’India, insomma è una specie di prototipo dell’architettura templare hindu. Diamo un’occhiata al bassorilievo di Shiva con moglie e figlio, alla fila di tori allineati sulla recinzione del tempio e quando l’attenzione scema il nostro accompagnatore lo capisce al volo e ci porta, a piedi, a vedere l’attrazione turistica più importante del sito: i Pancha Rathas, “cinque carri”.
Che si tratti di una attrazione turistica lo si capisce subito dalle scolaresche chiassose e dalle famigliole che cercano di non perdere i figli. Europei? Sì, forse qualcuno. Appena mia moglie scatta la prima foto si forma attorno a lei un gruppo vociante, i maschietti sono più sorridenti e sfacciati, le bambine più timide, poi arrivano due signore che vogliono anche loro essere fotografate, io cerco di sgattaiolare via.
I templi in realtà non sono templi perché mai finiti né consacrati, forse erano modelli in pietra dei carri e dei palazzi volanti di cui si narra nei testi epici sanscriti, forse erano modelli dei vari tipi di tempio hindu fino ad allora ancora in legno, forse… nessuno lo sa ancora con certezza. Di certo catturano lo sguardo.
I Pancha Rathas sono cinque modelli diversi tra loro, ognuno costruito utilizzando un solo enorme masso di granito rosa. C’è un tempio a pianta quadrata, uno decisamente rettangolare, un terzo ha una specie di abside circolare, due stanno sulla stessa piattaforma, tre hanno una camera interna, gli altri sono fermi alle colonne e alle nicchie esterne, dentro il masso è ancora tutto pieno. Tra i turisti di una certa età qualcuno osserva con attenzione, qualcun altro con fare interrogativo, la nostra guida osserva le insegnanti. Mia moglie continua imperterrita a fotografare persone come in uno studio fotografico, adesso c’è un’intera famiglia in posa.
Torniamo in albergo. “C’è Mister Anil Yadav che vi aspetta”, ci dicono alla reception. “L’autista va bene? che valutazione gli date? e la guida? l’albergo è ok? per favore compilate il questionario…”
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.