Per me assomiglia a un disco volante appena precipitato, per mia moglie è un enorme zuccotto d’oro, nella realtà è lo stupa della Kaunghmudaw Paya sulla strada da Mandalay a Moniwa, proprio nel centro del Myanmar, è stato appena ridipinto con vernice dorata e adesso brilla di una luce accecante che rende ancora più fresca e gradevole l’ombra degli alberi che lo circondano.
Le donne del mercatino onnipresente attorno ai templi hanno le guance impiastricciate di giallo come tutte le bambine, ragazze, donne e nonne del Myanmar – ma a cosa serve? – chiediamo alla nostra guida Aung piùtrenomichenonricordo – è la thanakha, una crema cosmetica, protegge dal sole, è emolliente e idratante, è di origine naturale e si ricava… Ok, comprata! La saponetta è ancora da qualche parte nel bagno di casa, mai usata.
Moniwa
A Moniwa, prima del pranzo giro al mercato ma niente di particolare per cui c’è tempo per una visita a un istituto speciale. Sotto un portico verde Tiffany si allineano decine di lapidi ricoperte da una fitta scrittura tutta cerchi e cerchiolini come gocce di pioggia sull’acqua di uno stagno – sono libri di testo buddista per i ragazzi che non se li possono permettere – ci spiega Aung, il ragazzo sdraiato a dormire sul fresco del pavimento piastrellato starà mandando a memoria una lapide intera.
Le grotte di Pho Win Taung
Le grotte di Pho Win Taung sono lontane e in viaggio dopo pranzo si pisola ma il risveglio è brusco.
Appena scesi dalla macchina, mentre ci incamminiamo e Aung sta cominciando a spiegarmi cosa andiamo a visitare. Un urlo angosciato ci fa girare di scatto: mia moglie è circondata da una decina di macachi che hanno subito individuato l’anello debole del gruppo. Convincerla a continuare non è stato facile ma alla fine siamo arrivati alle grotte, tantissime, per lo più piccole e piene di statue del Buddha seduto con la mano destra abbassata nella posizione del Bhumisparsa mudra (che prende la terra come testimone della verità delle sue parole, Aung piùtrenomichenonricordo docet….), tutte, ad eccezione di un grande Buddha dorato che se ne sta sdraiato in una grotta più grande.
Quello che le rende assolutamente interessanti – continua Aung – sono le pitture. Sulle pareti e sui soffitti la patina scura del tempo copre le intricate storie delle vite del Buddha e dei suoi discepoli, a parte il rosso, il nero e qualche verde slavato tutti i colori sono spariti, un restauro è davvero urgente. Due scimmie tornano all’assalto mostrando i denti cattivi, meglio dar loro i nostri biscotti salati, li apprezzano molto, poi le patatine – hai altro? – chiede mia moglie sull’agitato – no – torniamo alla macchina, fa troppo caldo?!
Myint
Oggi trasferimento da Moniwa a Bagan ma Aung, capiti i nostri interessi, ci promette come extra un sito speciale. La strada corre in mezzo a una pittoresca campagna interrotta da villaggi nascosti tra gli alberi – ecco A Myint, siamo arrivati: stradine polverose, recinti di legno, nessuno in vista tranne due mucche che ruminano all’ombra e all’improvviso tra alberi tenaci e cespugli invadenti decine di punte bianche e nere svettano verso il cielo, siamo entrati in un cimitero degli stupa.
I più malconci, anneriti dal tempo, hanno la punta spezzata, altri sono proprio crollati, i grandi leoni di guardia mostrano sotto lo stucco il cuore di mattoni, per sicurezza Aung fa la guardia a mia moglie, casomai ci fossero scimmie in giro. Ci sono anche stupa recenti, bianchi di stucco e con la cima dorata, e un piccolo monastero ancora in uso. Del tutto inaspettato, grazie, abbiamo apprezzato.
Thanboddhay Paya
E cosa dire della Thanboddhay Paya, ultima sorpresa della mattinata? All’inizio non capiamo di che si tratta, è un palazzo? Un hotel? No, è una pagoda tutta rossi e gialli ingabbiata in ponteggi di bambù, il tetto è coperto da decine di piccoli stupa dorati, tutt’attorno alti obelischi carichi di statuine del Buddha si alternano a bassi stupa ricoperti da decorazioni floreali.
Se l’esterno è un qualcosa per noi europei un po’ kitsch e un po’ Disneyland, l’interno è addirittura surreale, gli ambienti sono dominati da grandi statue di Buddha, faccia bianca, veste dorata, mani nelle diverse posture canoniche ma sulle pareti – guarda sono tutti Buddha – mi fa notare mia moglie indicandole, non c’è uno spazio vuoto, solo file e file di minuscoli Buddha bianchi e oro, danno quasi lo stordimento, sono più di mezzo milione ci dicono.
Alcune devote si inginocchiano davanti alla statua principale, led psichedelici lampeggiano attorno alla sua testa, da noi nessuno si sognerebbe di mettere una simile aureola in testa alla Madonna, buon gusto o religiosità ormai appannata?
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.