“Da Napoli esce il meglio e il peggio dell’umanità.”
Me lo ripeteva sempre il mio datore di lavoro, un pizzaiolo napoletano che a otto anni aveva cominciato a vendere sigarette di contrabbando per le strade del suo quartiere. A dodici anni si imbarcò di nascosto su una nave da crociera come lavapiatti. Alcuni anni dopo, su quella stessa nave, era diventato aiuto pasticcere, ma litigò con lo chef e gli lanciò il grembiule in faccia prima di licenziarsi. Tornò a Napoli, si sposò, e poi si trasferì a Verona, dove io ero un inetto studente di Giornalismo.
Al mio arrivo nella sua pizzeria aveva già preso a schiaffi un vigile urbano, reo di aver preteso l’imposta sulle ristrutturazioni del locale. Urlava da quando entravo a quando uscivo, e il fatto che nel tempo mi sia trasformato da inetto studente a solerte cameriere non ha mai attenuato le urla neanche di un decibel.
La sua pizza “speciale” (mozzarella, fichi, gorgonzola e crudo) è ancora oggi la pizza più buona che io abbia mai mangiato. La sua preparazione – per esplicita ammissione del pizzaiolo – comincia col “rubare quattro fichi al contadino”. Eppure fuori dal lavoro era amabile e cordiale. E di certo gli devo, oltre a tutte le pizze che ho mangiato, gran parte di quello che so sul servizio di sala, sul sacrificio, sulla pazienza e sulle cure per i calli.
In pizzeria entrava gente di ogni sorta, dagli amministratori comunali ai senzatetto. E il nostro pizzaiolo era rude e sgarbato con la gente in giacca e cravatta – tutti ladri, secondo lui, e truffatori – mentre ai senzatetto offriva sempre qualcosa da mangiare.
Quel pizzaiolo bipolare non è stato il mio primo incontro con la napoletanità. Una gita scolastica mi aveva portato nella città partenopea anni prima, ma delle gite scolastiche non ci si ricorda mai la città. Quello che rimane sono sempre le serate con bottiglie scadenti di vodka alla frutta, le canne sul balcone e le impacciate ambizioni erotiche.
Perciò era ancora quella del pizzaiolo, con il suo sguardo acceso e i baffi folti, l’immagine che mi ha accompagnato verso il mio ritorno a Napoli una primavera di svariati anni dopo. Due mesi nel capoluogo campano, tra i vicoli del Vomero, i ristoranti dei Quartieri spagnoli, i bar di Spaccanapoli, le gallerie di Napoli Sotterranea, le pizze di Michele e i taralli di Leopoldo. E poi la musica, il teatro, l’arte…
Napoli è la più radicale espressione di umanità che mi sia mai capitato di attraversare in viaggio. Napoli è arte, e l’arte è vita. E la vita è lo scontro di due pulsioni fondamentali: l’amore e la violenza. A Napoli ce n’è in abbondanza di entrambe. Scampia, Secondigliano, Forcella… sono diventati lo sfondo di appassionanti trame televisive, ma la realtà ha sempre preceduto ogni teatralità. Periodicamente i quartieri sono attraversati dalle “stese”, atti di violenza con cui i giovani camorristi riuniti in “paranze” armate mostrano il loro potere e la loro spavalderia.
Neanche il Rione Sanità, il celebre quartiere del “principe” Antonio De Curtis in arte Totò, si è saputo sottrarre al suo debito di sangue. L’ultima strage risale al 21 aprile 2016, quando due sicari su una motocicletta hanno ucciso due uomini e ne hanno feriti altri tre, mentre per strada erano raccolti passanti e famiglie con bambini.
Vista così, sembrerebbe che a Napoli ci si possa andare solo con la scorta armata, ma non è vero. Per quanto sia fondamentale riconoscere la disgustosa emorragia culturale e morale rappresentata dalla camorra, sarebbe un gesto di bieca miopia esaltarla al di sopra della bellezza e del calore che la città partenopea è in grado di offrire. La recente amministrazione ha ridato lustro al centro storico, mentre le qualità umane della popolazione sono trasversali nel tempo e nella geografia della città, e sono il risultato di secoli marchiati quasi senza interruzione da conflitti e riconciliazioni.
Nel 536 Napoli fu conquistata dai bizantini e divenne ducato autonomo. Attraversò continue guerre, soprattutto contro i Longobardi e i Saraceni. A fasi alterne, però – come accadeva anche in altre parti del Meridione – Napoli si trovò a intessere con la comunità musulmana anche rapporti commerciali e alleanze militari, tanto da impiegare le truppe saracene contro i suoi nemici nonostante la scomunica imposta da papa Giovanni VIII al duca Attanasio II.
I mercenari saraceni venivano spesso da Traetto, colonia militare sulla foce del Garigliano. Di questa località il celebre storico siciliano Michele Amari scrive nel suo “Storia dei musulmani in Sicilia”: “Il breve tronco del fiume, navigabile a barche, rendea comoda la stanza e agevoli gli aiuti; sedendo alla foce i confederati cristiani di Gaeta, e un po’ più lungi la repubblica di Napoli, che si facea rispettare, ma in fondo era amica.”
Nel 1139 i normanni di Ruggero II d’Altavilla conquistarono la città: Napoli entrò così a far parte del neonato Regno di Sicilia, con capitale Palermo. Più tardi, Federico II di Svevia sceglierà la città partenopea per istituire l’Università di Magistratura, il più antico istituto europeo del suo genere.
Nell’animo napoletano c’è un’innata propensione all’essere umano. Il dialetto, i modi, la gestualità, sono un continuo porsi e aprirsi verso l’altro. Un atteggiamento che nella quasi totalità dei casi si concretizza per il visitatore dalla mentalità aperta e curiosa in un abbraccio di emozioni ed esperienze memorabili.
Nel suo meraviglioso “Così parò Bellavista”, Luciano De Crescenzo si trova impegnato in un’insolita lezione sulla napoletanità. Gli uomini, afferma il suo personaggio, si dividono in uomini d’amore e uomini di libertà. Gli uomini d’amore dormono abbracciati e fanno il presepe. Gli uomini di libertà dormono da soli e fanno l’albero di Natale. I milanesi sono uomini di libertà, votati all’efficienza e al pragmatismo. Infatti si lavano sotto la doccia. I napoletani sono uomini d’amore, non hanno bisogno di spazio, vivrebbero sempre abbracciati. E si fanno il bagno, perché “il bagno è napoletano, è un incontro con i pensieri, un appuntamento con la fantasia.”
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.