Giorno 7, da Grandas de Salime a Fonsagrada – 27,7 km
Oggi si sale a Fonsagrada, il comune più alto della Galizia, tempo certo, cioè brutto.
Fare il camino, per me che non so il GPS cosa sia, vuol dire andare da una iglesia a una capilla, da una capilla a una ermita e così via, sono i punti di riferimento più sicuri perché tutte hanno il loro bel cartello con nome e data di costruzione. E così su un sentiero fangoso in mezzo ai boschi arrivo alla capilla del Carmen, non faccio in tempo a ripartire che mi superano a passo da podista la bella e lo smilzo, leninisti con pochi soldi verso Santiago de Compostela, da dove arrivano non lo so, non erano in albergue ieri sera, dove vanno nemmeno.
Più avanti, su un tratto pianeggiante e fangoso in mezzo ai prati intravedo la sagoma inconfondibile di Stefan, non sta guardando il GPS, sta consolando la ragazza tedesca di Borres che si è lasciata con la mamma, se erano venute per far la pace il miracolo Santiago non l’ha ancora fatto ma la strada è lunga.
Dalla ermita di Castro la strada sale fino alla iglesia di Santa Maddalena di Penafonte col suo bell’albero di tasso, carina, muschi verdi sul tetto a spiovente, campanile a vela, portico coperto, il posto ideale per il panino di mezzogiorno, per l’acqua c’è il lavatoio lì di fronte, la Galizia è qui dietro.
Al cippo di confine la guida mi ricorda che “la direzione è indicata dalla chioma della conchiglia e non dalla sua base come in Asturia”, chissà se prima di Santiago capirò anche il verso. Ormai non c’è più da salire ma la strada non finisce mai. Mi sono accorto che quasi tutte le foto sono state scattate al mattino, vuoi dire che al pomeriggio sono stanco?
Mi correggo, per arrivare a Fonsagrada c’è l’ultima salita, e l’albergue è fuori, altri due chilometri, meno male che davanti alla iglesia di Santa Maria incrocio Noel che è arrivato da ore e non sa più come passare il tempo – vieni c’è una pensioncina tranquilla qui di fianco poi per stasera ho visto un bel ristorantino – come si fa a dire di no.
Giorno 8 – da Fonsagrada a Cadavo Baleira – 22,5 km
Piove a dirotto ma è una bella giornata perché ho scoperto di aver fatto più di metà percorso.
Niente panorami oggi, il cappuccio della mantella mi permette di vedere solo l’acqua che cade sui cespugli gialli di ginestra spinosa che segnano il bordo del sentiero inondato, un muro di erica rosa si perde nella nebbia, basta poco per essere contenti, se poi si trova un posto dove ripararsi si potrebbe quasi essere felici.
La pioggia cala, una casa, davanti al granaio di legno un rigoglioso viburno dai fiori giallastri, un cespuglio di peonia dai fiori rosa vivo e un vaso di iris degno di Van Gogh – hermoso – mi dice una voce alle spalle, una donna intabarrata in un impermeabile nero lungo fino ai piedi con un cappello nero a falda larga, un tipo da film o forse incomincio ad essere stanco, mi sorride e mi sorpassa – buen camino! – non l’ho più rivista, neanche in sogno.
Bivio, nessun segnale, a sinistra si scende, a destra non si può salire perché il cane più piccolo e bastardo legato con una catena alla cuccia incita l’altro, più grande e grosso ma soprattutto senza catena, a far vedere chi comanda, non voglio scendere, preferisco sbagliare in salita, un bastone bello grosso chiarisce le intenzioni ma se insistevano prendevo la discesa.
Non so se la strada è giusta ma il sentiero passa in una valletta fantastica, due case di pietra grigia, prati lucidi d’acqua, boccioli rosa sui rami dei meli, una cascata di erica bianca sul sentiero che corre tra due muretti di sassi invasi dai muschi e poi nel bosco collages di licheni bianchi sui tronchi neri di quercia e nuvole di foglie novelle in tutte le tonalità del verde, ed ha anche smesso di piovere.
Lungo il sentiero in discesa verso Càdavo mi raggiungono Arnaud, Noel, la bella e lo smilzo – abbiamo sbagliato strada – c’erano due cani? – sì.
Giorno 9 – da Cadavo Baleira a Lugo – 30,9 km
Tutti partiti all’alba, giornata lunga, tempo indecifrabile.
Dalla pineta folate di nebbia tracimano sul sentiero, nel cielo si aprono occhiate di azzurro, sull’Alto da Vaqueriza la nebbia scompare del tutto e lascia il posto al sole, lontano, nel verde dei boschi che coprono le basse colline, una striscia bianca, Lugo quasi certamente, mancano solo 28 chilometri.
A Vilabade, in fondo alla discesa c’è la chiesa di Santiago, è chiusa sembra dirmi un gatto sornione sul muretto della strada, ma subito arriva, senza essere chiamata, una signora con due bambine che ha le chiavi – viene aperta solo per i pellegrini e per i matrimoni – mi dice. In cima al retablo c’è la famosa statua di Santiago Matamoros su un cavallo bianco, spada ondulata nella mano destra, croce nella sinistra, i due mori ai lati sono già rassegnati.
E’ scoppiata la primavera, per la prima volta cammino con la sola maglietta, niente pile, niente giacca a vento, ed è finita la montagna, il sentiero è diventato una carrareccia tra prati da sfalcio, pioppi nel vento e limpidi canali d’irrigazione, vicino ai villaggi orti zappati e prati in fiore. Un solo pellegrino, anzi una pellegrina, Mathilda si chiama, ultrasessantenne di Germania che parla un buon italiano, mi lascia ai miei fiori – buen camino!
Alla fine Lugo, l’albergue è grande e frequentato, ci sono madre e figlia tedesche, quelle di Borres, sembra si siano rappacificate. Stanco sì ma il giro delle mura romane non me lo toglie nessuno, alla fine sono solo duemilacinquecento metri in più.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.