Per arrivare in Marocco da Tarifa, punta meridionale della Spagna che suggella l’incontro tra mondo arabo e Occidente, ci sono battelli ogni ora tra le nove del mattino e le sei di sera. In estate il servizio è più intenso, ma per i miei bisogni quello delle nove va benissimo.
Dopo un’ora e mezza – il doppio del previsto, causa maltempo – sbarco a Tanger e mi faccio portare in taxi alla stazione ferroviaria. La mia fretta è inutile, ormai ho perso il treno per Rabat. Un’altra tappa destinata a cominciare con innumerevoli scuse verso chi mi aspetta ormai da due ore.
Quando in Spagna dicevo che ero diretto nella capitale del Marocco ricevevo per lo più sguardi increduli e scettici. Rabat non è molto amata né dai marocchini, né dai turisti che preferiscono mete ben più esotiche e affascinanti. Però è una città tranquilla e relativamente serena, perciò chi vi giunge per lavoro dall’Europa non fatica ad ambientarsi alla cultura marocchina mitigata dai ritmi intensi di una grande città. “Qua gli italiani si trovano sempre benissimo”, mi conferma Soufiane, mentre mi guida per le strade del centro verso quella che diventerà la mia abitazione per una settimana.
Soufiane è il coordinatore dei progetti di Projects Abroad, un’organizzazione non governativa con sede in Inghilterra che a Rabat gestisce diverse attività di volontariato. Io sarò loro ospite nel corso dei giorni che mi ci vorranno per ficcare il naso nelle loro faccende e per sfruttare il loro appoggio affinché possa aprirmi una breccia nella comunità locale. Quello che dice sugli italiani è vero, più parliamo e più ci ritroviamo ad ammettere che le nostre culture sono più vicine di quanto molti nostri politici non siano disposti ad ammettere. Soufiane ha visto ragazze e ragazzi inglesi, tedeschi o francesi disperarsi al loro arrivo, alle prese con un mondo a loro totalmente estraneo. I ragazzi italiani che arrivano fin qua per fare i volontari dopo qualche giorno – il tempo necessario per capire che i tassisti non useranno mai il tassametro con degli occidentali e per scoprire i sapori di tajin e cous cous – si sentono già come a casa: schiamazzi per strada, traffico convulso, scarso senso per la puntualità e grande calore umano.
Da Rabat Agdal, la stazione posta nel centro più moderno e raffinato, arriviamo a Rabat Ville con un taxi bianco, uno di quelli che seguono sempre lo stesso percorso consentendo di salire e scendere a piacimento. Quelli blu invece vanno dove chiede il passeggero. In ogni caso lungo la strada arrivano a caricare fino a sei persone, schiacciandole senza remora o pietà due avanti e quattro dietro.
La mia famiglia adottiva abita oltre la medina in cui si affollano venditori di cianfrusaglie elettroniche, vestiti, cibarie e accessori vari. L’altra medina, contigua a questa, ospita un mercato più selezionato, dedito all’artigianato.
Atmane e sua moglie Hanane mi accolgono con grande calore e trovo ad attendermi il té con del pane, miele e una salsa piccante per fare “uno spuntino”. Di questi spuntini ne farò tre al giorno, a cui si aggiungono i tre pasti canonici della giornata. I miei due nuovi amici parlano l’italiano perché hanno vissuto a lungo a Como, ma io avverto subito che voglio affondare nella cultura araba il più possibile, perciò parto in quarta con salaam-el-eikum, mangio con le mani dal piatto comune, rifiuto forchetta e cucchiaio e in breve divento lo zimbello dei due figlioletti, due piccole, adorabili pesti che non smettono un attimo di urlare e di correre da un angolo all’altro della modesta dimora.
Tra un progetto e l’altro, sabato riesco a incontrare Rasheed, amico d’infanzia di Hanane e re indiscusso delle guide di Rabat. In perfetto francese mi conduce alla scoperta del cimitero musulmano che da dietro la medina si affaccia sul mare, le cui tombe sono rivolte non verso la Mecca, ma adagiate in modo che i defunti possano guardarla stesi sul lato destro.
Mi rendo subito conto che Rasheed, oltre ad essere la mia guida, è la mia guardia del corpo e il mio consulente per acquisti e indicazioni stradali. Conosce tutto e tutti, e ci sono alcuni angoli della città in cui un turista non dovrebbe avventurarsi con troppa confidenza: difficilmente c’è ragione di temere per la propria incolumità, ma portafogli, macchine fotografiche e cellulari scompaiono che è un piacere. Basta uno sguardo di Rasheed per far dileguare un gruppetto di ragazzini troppo curiosi e con lui al mio fianco posso fotografare la vita della medina con impietosa avidità.
Ci infiliamo per le via della Kasba degli Oudaïa, i cui candidi palazzi sono velati d’azzurro non tanto per accordarsi al vicino mare, ma perché tale è il colore della calce utilizzata per tenere lontane le zanzare. Sorprendiamo al lavoro artigiani del legno e del cuoio, superiamo le loro botteghe dispensando salamelecchi a destra e a manca e raggiungiamo i tetti per una panoramica della città.
Rasheed si sofferma in un piazzale dove sono soliti incontrarsi le coppie di innamorati. In Marocco non è vietato amoreggiare con la propria compagna prima del matrimonio, ma farlo in pubblico è visto come una grave mancanza di rispetto nei confronti della donna, perciò le coppiette più audaci devono trovare angoli bui e appartati, panchine nascoste da cespugli e alberi, o attendere l’occasione buona per infilarsi in casa dei genitori.
Dopo un tè e qualche chiacchiera, Rasheed si congeda con un abbraccio e mi lascia in balia della città. Io mi perdo ogni due passi, ma la gente del posto è cortese e ospitale e non si tira indietro dal darmi indicazioni nonostante la barriera linguistica. Tra francese e le poche parole in arabo che conosco ritrovo Rue Mohammed V, intitolata al nonno dell’attuale sovrano, Mohammed VI.
In Marocco il re è una figura intoccabile, paterno e generoso in pubblico ma al vertice di una regime severo che non tollera la messa in discussione della sua autorità. Non mancano le proteste rivolte al governo eletto, ma non c’è situazione scritta o parlata in cui il nome del re venga nominato senza che sia seguito dal consueto “che Dio lo assista”. Difficile comprendere in che misura si tratti di un affetto sincero – che pure è molto diffuso – e quanto invece un effetto della paura della temuta polizia segreta marocchina.
Intanto non si può negare che il Marocco stia facendo progressi impressionanti: non c’è grande città senza cantieri per la costruzione di strade e ferrovie, le principali città sono al centro del turismo internazionale e per scongiurare l’innescarsi della Primavera Araba nel suo Paese, il sovrano marocchino ha esteso e rafforzato i diritti civili e politici del suo popolo in una nuova costituzione (che però fatica a trovare completa applicazione in campo sociale). Questi progressi, però, toccano solo marginalmente le fasce più disagiate, i remoti villaggi del sud e l’ambigua condizione delle donne, ben più libere qui che in altri paesi arabi ma comunque sottoposte all’autorità maschile.
Con questi pensieri in mente, osservando emozionato le stelle stagliarsi sopra la medina dalla terrazza di Atmane e Hanane, mi sento ancora una volta fortunato ad essere nato tra il dieci per cento giusto del mondo. Eppure il Marocco mi affascina, mi travolge e mi attrae a sé, e io sono ansioso di scoprirne ancora molti aspetti…
Alloggiare a Rabat
Nella capitale marocchina non mancano certo gli alberghi, ma per un’esperienza più profonda potete provare a contattare Atmane per soggiornare in una camera privata nella sua modesta ma confortevole dimora a due passi dalla medina. Sia lui che sua moglie parlano l’italiano e lei è anche un’eccellente cuoca e una padrona di casa piena di premure.
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.