Anno Mille, in Europa si aspettava la fine del mondo, in India Rajaraja Chola I costruiva a Thanjavur il Brihadeeswarar, il tempio capolavoro dell’arte dravidica hindu, non a caso dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
Siamo arrivati da Chidambaram dove abbiamo visitato il tempio dedicato a Shiva Nataraja, Shiva che esegue la danza cosmica, ma quello di Thanjavur è un’altra cosa ci avevano detto. Ed eccoci qui davanti a una grande porta sormontata da un robusto gopura, la torre piramidale che identifica l’ingresso dei templi in molti stati indiani, si entra e si lasciano in custodia le scarpe, le uniche tra decine di infradito, cento metri, altro muro, altra porta difesa da due possenti guardiani e finalmente il tempio. Il cortile è ampio, lastricato di mattonelle rosse, la giornata è splendida e la torre del tempio si staglia altissima contro il cielo azzurro: uno spettacolo!
I fedeli sono numerosi perché il tempio è ancora in uso, i turisti occidentali pochissimi e non invadenti. La guida ci porta al padiglione del toro Nandi, la cavalcatura di Shiva, è enorme, cinque metri di lunghezza e due di altezza, uno dei più grandi dell’India – perché ce n’è di più grandi? – ed è stato scolpito in un unico blocco di granito scuro, quasi nero. C’è una grande piattaforma prima dell’ingresso del tempio vero e proprio, serviva e serve tuttora per le esibizioni delle danzatrici del tempio perché Thanjavur è famosa anche per la scuola di danza classica Bharatanatyam, il nome me lo ha scritto la guida. Mi lascio scappare un mi piacerebbe vederle, mia moglie scuote la testa con compatimento.
Una scala porta a una lunga sala colonnata, quella che in genere chiamano la sala dalle mille colonne, anche se sono quasi sempre molto meno, e da questa al tempio vero e proprio su cui si alza il vimana, la spettacolare torre a piramide che catalizza lo sguardo. La torre ha 13 piani per una altezza di 60 metri, una delle più alte strutture di questo tipo al mondo. E non è tutto: è coronata in cima da un bulbo che la guida ci dice essere un monolito di 80 tonnellate! Come l’hanno portato in cima? Probabilmente con una rampa di terra lunga qualche chilometro, come per le piramidi. Tutto il tempio è di granito e, come per le piramidi, il granito è stato portato fino a Thanjavur da cave distanti decine di chilometri, stessa mania di grandezza.
Il tempio è costruito su un basamento alto quattro o cinque metri tutto ricoperto da iscrizioni che, ci dice la guida, spiegano quante persone lavoravano per il tempio, più di ottocento, quanti villaggi servivano per mantenerlo, quanti sacerdoti, guardiani, artigiani, portatori d’acqua, musicisti – e le ballerine? – quattrocento danzatrici, non ballerine, mi risponde.
Nel tempio si può entrare anche da scale laterali ma non saliamo perché la cella vera e propria è accessibile solo ai bramini e poi c’è troppa gente che entra per pregare e non vogliamo disturbare, e in più non si possono nemmeno fare le foto. Proseguiamo il giro per ammirare le sculture grandi e piccole che ornano le pareti del tempio, statue classiche di divinità che non rubano però la scena alla potenza della struttura. Ci sono come al solito gli addetti alle pulizie del cortile, non ho mai capito perché in India non mettono il manico alle ramazze per evitare di lavorare sempre piegati in due.
Dietro al tempio, sulla sinistra, ce n’è un altro molto più piccolo costruito nel XVIII secolo. Tra le statue di divinità e delle loro cavalcature che ornano il vimana ci sono anche degli europei che sembrano però dei puffi o i sette nani di Biancaneve, c’è anche Marco Polo dice la guida ma non lo identifico, poco male.
In fondo sulla destra c’è un altro tempio anche questo più recente ma molto più bello di quello dei nanetti. Le colonne addossate alle pareti sono scanalate e ricordano un po’ le colonne classiche della Grecia, le statue sono armoniose e, a detta della guida prodiga di informazioni, sono tra le più belle del Tamil Nadu. Il tempio è dedicato a Kartikeya, il dio della guerra e della vittoria e sui parapetti degli scalini che salgono al tempio sono scolpiti degli elefanti da guerra che stringono nella proboscide i corpi di malcapitati nemici. Noi guardiamo gli elefanti le vecchiette in sari lì attorno guardano noi e le nostre calze, sì si può entrare con le calze.
Mentre stiamo tornando all’ingresso passando sotto il portico che circonda il tempio per vedere i numerosi lingam, le pietre falliche simbolo di Shiva, e le pitture murali siamo avvicinati da una specie di santone, barba bianca, ombrello al braccio. Si rivolge a me dicendo qualcosa che ovviamente non capisco, la guida se ne sta sulle sue, il santone indica la mia macchina fotografica con una mano e fa l’inequivocabile sfregamento di pollice e indice con l’altra – foto a pagamento? – ma sì, perché no, mi sento un po’ Steve Mc Curry anche se il risultato non è proprio lo stesso.
A proposito di elefanti, presso l’uscita c’è l’elefante del tempio che dà la benedizione. Basta allungare una moneta sul palmo della mano, lui la prende con la proboscide, la passa al padrone e poi tocca con delicatezza la testa del donatore. C’è chi attende con apprensione a occhi chiusi e chi sorride ansioso a testa bassa, non riesco a convincere mia moglie a fare un’offerta e a farsi benedire.
Cresciuto, tanti anni fa, sui romanzi di Kipling, Salgari e Verne, ho ritrovato l’anno scorso su un mio quaderno delle elementari un tema che descriveva un fantastico viaggio in piroga su un fiume nel cuore della giungla indiana. È da lì che evidentemente è nato il mio amore per le culture del sudest asiatico, l’India in primis, e per i fiumi lontani e le foreste oscure a partire dalla mitica Amazzonia.