Dorilla e rane freccia sul rio Tahuayo, Peru: diario di viaggio in Amazzonia #4

22 Aprile Il post precedente lo trovate qui A pesca di piranhas sul Rio delle Amazzoni: diario di viaggio in Amazzonia #3

Sono strani i fiumi dell’Amazzonia, il Rio delle Amazzoni è fangoso perché carico dei sedimenti delle Ande, il Tahuayo, che è un suo affluente, è scuro perché ricco di materiale organico della foresta ma, a sua volta, riceve il Rio Blanco, giallastro per i sedimenti provenienti da qualche rilievo sperduto nell’Amazzonia. Idrografia a parte, oggi Rio Blanco, si va a cercare le rane freccia, quelle usate dagli indigeni per avvelenare le punte delle frecce.

Sulla barca una guida nuova, come si chiama non lo so, mica posso saperli tutti i nomi, risponde solo a sorrisi, non parla inglese ma sa dove trovare le rane, Marco invece parla inglese ma di rane mi pare di capire ne sa quanto noi.

Sole a piombo sopra il borbottio del motore, è mezz’ora che risaliamo l’acqua gialla quando all’improvviso accostiamo a destra, non c’è niente solo rami di alberi semisommersi, guardiamo perplessi Marco che si alza in piedi e scruta nel fogliame, poi un rumore di qualcosa che si muove tra le frasche e all’improvviso compare una grossa scimmia che allunga una mano, pardon una zampa, per prendere la banana che Marco le sta offrendo.

E’ Dorilla – ci dice Marco – è una woolly monkey (scimmia lanosa) – il nome locale me lo sono già scordato – e cosa ci fa qui? – l’avevamo trovata e comprata al mercato a Iquitos e l’abbiamo liberata al lodge ma rubava tutto, macchine fotografiche comprese, e le nascondeva sugli alberi per cui l’abbiamo portata qui sperando che trovi qualche compagno, ma sono scimmie rare perché i cacciatori le catturano, quando passiamo le portiamo qualcosa da mangiare.

Detto fatto, Dorilla salta in barca, un’altra banana, ha il pelo duro come uno zerbino e la parte inferiore della coda morbida come un guanto di pelle, è sicuramente un’attrazione turistica e lo sa, dopo le banane vuole tutto il sacchetto del nostro pranzo e tira e strilla come un bambino.

Un’altra mezz’ora di barca e per la prima volta da quando abbiamo lasciato Iquitos quattro giorni fa mettiamo piede sulla tierra firme, prima però dobbiamo indossare gli stivali forniti dall’organizzazione onde evitare di infettare il terreno con le spore di un fungo micidiale che sta falcidiando tutte le rane del Sudamerica (chitridiomicosi).

Marco spara subito tutte le sue cartucce – questo è l’albero che cammina, una palma che emette continuamente radici nuove dal tronco e col tempo può spostarsi, e queste sono le spine usate come dardi nella cerbottana, per soffiarle si mette dietro la spina una specie di lana prodotta dalla ceiba, la si conserva in queste noci e la si fa uscire da questo buco.

L’altra guida sorride e aspetta paziente, quando è il suo turno si incammina machete in mano nel folto della foresta, noi dietro in fila indiana. Io sono rallentato dai fiori e dai rari insetti che riesco a vedere, eppure ce ne sono milioni – aspettatemi, arrivo – Gigi, che soffre un po’ di vertigini, è rallentato dai tronchi caduti su cui dobbiamo camminare per superare gli avvallamenti, acqua ferma e fogliame in decomposizione, il posto che in tutti i film è riservato all’anaconda.

La guida scruta ai lati della traccia che solo lui vede e sposta le foglie con il machete, finalmente due ranette brune ma non sono velenose, peccato, poi dopo un altro quarto d’ora si ferma e ci indica col machete un ciuffo di lunghe foglie – dove? –lì – no si è nascosta sotto – eccola! Una ranetta non più lunga di un paio di centimetri, macchie gialle su fondo nero, è bella ma salta proprio come una rana, qualche foto e la perdiamo nell’intrico delle foglie, dopo di lei nient’altro.

Siamo fradici di sudore, non per la fatica ma per l’umidità, un grosso albero con le radici a contrafforti, Marco ci batte sopra col machete – è il telegrafo della foresta – dice, il suono è cupo e si diffonde in alto dove si perdono le liane, alcune salgono dritte come pali della luce, altre fanno ghirigori come i disegni dei bambini, poi liane attorcigliate come le corde dei transatlantici, liane come grossi nastri inamidati e dappertutto nidi di termiti, sembrano sacchi neri di plastica appesi agli alberi per non farsi sommergere dall’acqua, finalmente di nuovo la barca.

Questa sera si va a caimani, due barche a motore e tre canoe al traino, non capisco di giorno dove stiamo andando figuriamoci di notte, anche perché si va per un bel pezzo al buio, è come se conoscessero la strada a memoria ma qui non c’è strada, c’è un fiume gonfio d’acqua, alberi nel bel mezzo, tronchi sommersi, curve e anse.

Poi arriva il momento di trasbordare con qualche rischio sulle canoe e di superare pagaiando gli alberi della riva, le torce illuminano la superficie dell’acqua tappezzata di erbe galleggianti, siamo in una lanca abbandonata o in una palude, l’acqua è ferma, c’è un frinire incredibile come se ci fossero migliaia di grilli ma noi silenzio, si muovono solo i fari alla ricerca degli occhi gialli dei caimani.

La canoa fortunata è quella che ha a bordo Manuel, si capisce dalla faccia da indio che è il più esperto, difatti dopo alcuni minuti riesce a prendere con le mani un piccolo caimano, meno di un metro, foto, carezze delicate e di nuovo in libertà, sparisce sott’acqua. Una piccolissima rana verde salta sul bordo della canoa, adesso capisco, non sono i grilli ma queste microscopiche ranette a fare tutto questo baccano.

Come al solito si finisce in bellezza, mentre stiamo per attraccare al lodge, Marco vede sull’albero proprio di fronte alle nostre stanze due puntini rossi, si attacca ai rami e con l’aiuto della pagaia riesce a prendere un serpente – un altro pitone arboricolo? – forse sì dice Marco.

E’  quel forse che lascia un po’ perplessi, anche stanotte chiudere bene la porta.

P.s. sul sito di Amazonia Expeditions è comparsa la foto di Dorilla con una scimmietta in braccio, evidentemente un compagno lo ha trovato.

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