Sono sempre stato molto sospettoso nei confronti dell’Expo, e ci ho pensato e ripensato più volte prima di decidere se prendervi parte anch’io oppure no. Ancora prima dell’inaugurazione gli elementi noti erano tutt’altro che gratificanti: conclamate incursioni mafiose nei giri di interesse del grande evento, bustarelle nelle dinamiche di appalto, preoccupanti ritardi nella realizzazione dei padiglioni e delle opere connesse all’evento, sfacciato abuso del lavoro non retribuito dei giovani volontari e cannonate su fronti contrastanti per quanto invece riguarda assunzioni, condizioni di lavoro e salari.
Mi sono però tornate in mente le parole del mio amico Henrique Borralho quando parlava dei mondiali di calcio nel suo vituperato Brasile: “Eravamo in tanti ad essere contrari, ma quando la macchina si è messa in moto abbiamo fatto del nostro meglio per il bene del Brasile.”
Già, il bene comune. Dell’Italia, certo, ma anche della comunità globale, soprattutto delle fasce di popolazione soggette a fame e miseria. È a loro, in teoria, che Expo 2015 è dedicato. “Nutrire il pianeta”. È ovvio che l’oggetto dello slogan non può essere quel dieci per cento della popolazione mondiale che sul pianeta banchetta allegramente da secoli. Per questa ragione anch’io ho sperato che, sospetti e riflessioni critiche a parte, l’Esposizione Universale di Milano si dimostrasse un evento epocale capace di convogliare e far scaturire idee e propositi di portata planetaria. Ed è proprio per questo che l’ultimo muro alzato dalla mia coscienza contro l’evento verteva sulla stupefacente concentrazione di grandi marchi e multinazionali, superpotenze dell’industria alimentare la cui moralità e il cui interesse per le sorti dell’umanità (figuriamoci dei più bisognosi) è ben al di là del ragionevole dubbio. Un evento che si propone di veicolare gli sforzi dell’umanità contro la fame nel mondo non può sperare di risultare credibile quando nella pratica tutto si risolve in un’asta degli spazi al miglior offerente.
E invece eccomi qua, nell’occhio del ciclone. Una scelta su cui ancora non sono pienamente sereno ma che ho portato a conclusione sabato 20 giugno. L’occasione è stata l’invito da parte di Illy ad animare il primo di una serie di incontri sul turismo sostenibile. Solo il giorno prima mi sono reso conto che la conferenza si sarebbe tenuta nel padiglione Coca Cola, ma in fondo aveva poca importanza. La mastodontica presenza del marchio di Atlanta e di MacDonald è palpabile in ogni frammento di qualunque padiglione, poco importa dove si tenti di nascondere la testa.
Un incontro sulla sostenibilità ambientale, dicevo, il cui esito è stato abbastanza soddisfacente. Nonostante il mio criticismo, infatti, non mi è sfuggito il fatto che qualche idea apprezzabile ha fatto bella mostra di sé, tra un ristorante etnico e l’altro, tra una boutique di souvenir e un corso di cucina creativa. Ho apprezzato, ad esempio, il padiglione del Belgio. Dopo la dovuta esposizione dei prodotti più caratteristici – birra, patatine fritte e cioccolata – la patria di Tin Tin e dei Puffi si è adoperata in una sala seminterrata per illustrare con pannelli e dati scientifici il valore nutrizionale e le potenzialità alimentari di vermi e insetti. Non una novità, ma di certo un tema ancora poco diffuso che ad un’Esposizione Universale meriterebbe bene qualche ragionamento.
Ho solo sentito parlare, purtroppo, dell’idea degli svizzeri: esemplificare la limitatezza delle risorse alimentari allestendo un padiglione-magazzino dove chiunque possa approvvigionarsi con i prodotti esposti fino all’esaurimento delle scorte. Della stessa nazione ho però ammirato l’affascinante riproduzione in scala delle reti idriche naturali della catena del San Gottardo. La sala dedicata a Zurigo presentava delle gradevoli – per quanto sterili – immagini plastiche e fotografiche delle amenità territoriali. Una terza sala ha catturato la mia attenzione con l’ammiccante titolo “Nutrire la mente”. Solo dopo aver varcato l’ingresso mi sono reso conto che era uno spazio espositivo della Nestlé, che in realtà non esponeva alcun prodotto, solo degli infantili giochini educativi elettronici, ma se penso che per “nutrire il pianeta” hanno convocate un gruppo industriale accusato continuamente di crimini vili e spregevoli – gli ultimi la complicità nell’impiego di bambini-schiavi in Africa e l’appropriazione indebita delle riserve idriche statunitensi per rivendere l’acqua in bottiglie a prezzi criminosi, proprio mentre Sacramento soffre la siccità per il quarto anno di seguito – non posso davvero trattenere i brividi lungo la schiena.
Ho speso qualche sospiro nel padiglione del Nepal, ma il devastane terremoto di poche settimane fa ha costretto gli animatori nepalesi a disertare il campo per correre in soccorso dei propri cari. Restano alcune immagini appese al soffitto di una galleria lignea e una scatola di plastica in cui convogliare qualche offerta.
Un gran numero di padiglioni di Africa e Asia – parlo soprattutto delle nazioni meno abbienti – purtroppo si riducono a coloriti negozi di souvenir con annesso l’eventuale banco ristorazione. Non sono mancate alcune lodevoli – per quanto ridotte – esposizioni dedicate alla biodiversità, prontamente contrastate da esibizioni gratuite e ingiustificate di prodotti largamente premiati dal mercato, ma al limite della tossicità.
Ho visto il tanto decantato Albero della Vita. E devo ammettere che mi è piaciuto. Imponente, insolito, elegante, ben inserito nell’esuberante cornice architettonica dell’intero evento. Molto meno, invece, ho apprezzato gli annunci di servizio da supermercato che preannunciavano i giochi d’acqua con lo scopo di introdurre lo sponsor che se ne faceva carico di volta in volta. Non sono contrario agli sponsor, ci mancherebbe, ma se l’intero evento avesse avuto un po’ più di anima e meno stomaco, avrebbero di certo individuato una soluzione più sobria.
A proposito di spettacoli italiani, ho avuto la sfortuna di avventurarmi nel complesso Cibus e Italia della Federalimentare. Una decadente e noiosa esposizione non tanto dei prodotti che hanno reso grande la nostra cultura gastronomica, quanto dei marchi che si sono arricchiti nel venderli e, spesso, nel presentare un prodotto industriale di gran lunga inferiore al suo archetipo rurale. C’erano tutti – molti dei quali, non lo nego, li apprezzo anch’io nella mia quotidianità – da Barillla a De Cecco, da Nardini a Rana, fino a quella che forse sarà la perla insuperabile di questa kermesse, l’angolo Findus che annuncia trionfale “con i cibi surgelati risparmi e blocchi lo spreco”.
Ho apprezzato – a tratti – la presenza di piccole realtà territoriali che con poche risorse sono riuscite a ritagliarsi una vetrina necessaria per valorizzare un patrimonio storico e naturale che ancora fatica a ricevere il giusto riconoscimento. Realtà come l’Irpinia dell’amico e compagno d’armi Carlo Crescitelli (L’Antiviaggiatore), che quel giorno ha offerto un piccolo intrattenimento musicale con i ragazzi del conservatorio di Avellino, a cui è seguito l’intervento del presidente di Info Irpinia che ha lanciato un accorato invito ad andare a scoprire la bellezza delicata e struggente della sua terra. Spero che almeno per loro ne sia valsa la pena.
Per me no. E non intendo sconsigliare la visita all’Expo. Anzi. Come mi ha giustamente fatto notare l’amico Stefano Pediconi – architetto, designer e autore del progetto di ricerca The Wellness Room – la spettacolarità delle architetture dei padiglioni è tale da invogliare a visitare l’Expo non una, ma dieci volte. Io però cercavo qualcosa di diverso. Pretendevo qualcosa di diverso. Se mi avessero annunciato una fiera dei grandi marchi dove si beve e si mangia (a caro prezzo) e si prende visione delle offerte disponibili sul mercato non avrei avuto nulla di ridire. Non ci sarei andato, ma chi ha i soldi può farci quello che vuole. Ma rivendercelo come un evento di valore simbolico e morale, con uno slogan così velleitario da giustificare l’invito a lavorare gratis per “divenire partecipi di questa grande esperienza”, mentre le alte gerarchie si spartivano milioni su milioni di euro, ecco questo no. Proprio no.
L’Expo è un circo dell’industria alimentare. Piacevole, divertente, sorprendente, condito da qualche buona idea, ma basato sull’incontrastata presenza di un ingrediente banale e insipido: il marketing.
Laureato in Giornalismo, il mio limbo professionale mi ha portato dagli uffici stampa alla carta stampata, per poi approdare al variopinto mondo della comunicazione digitale. Ho vissuto a Verona, Zurigo, Londra, Città del Capo, Mumbai e Casablanca. Odio volare, amo lo jodel e da grande voglio fare l’astronauta.
Ciao, Flavio, malgrado il mio #expottimismo, sono d’accordo su molti pensieri di rammarico per una manifestazione che poteva avere ben più alti contenuti. Eppure, scavando come hai fatto per i padiglioni del Balgio o della Svizzera, ad esempio, escono fuori tentativi, non sempre ben espressi, di valorizzare un’idea che ruoti intorno al tema del cibo.
Che si potesse fare tanto di più siamo d’accordo, e staremo a vedere poi cosa succederà di tutto ciò alla fine della giostra, se ne vedranno delle belle.
Certo è che, invece, l’occhio dell’architetto non è abituato a vedere una simile concentrazione di nuovi edifici in Italia, ma questo è un altro tema, che mi porterà ancora all’Expo a breve per alimentare il mio archi-Expo-entusiasmo. Ciao
Ci sei andato giù pesante, non sembri molto un tipo da mezze misure, tu… vero è anche che, come tu stesso giustamente e impeccabilmente rilevi, ognuno di noi approccia il grande evento con sensibilità, aspettative e obiettivi assai differenti; ed è proprio per questo che, secondo me, le presenze e le partecipazioni qualificatamente critiche, come la tua, non solo riescono a ben convivere con i ritmi quotidiani del “circo”, ma anzi lo riempiono di un senso importante, che altrimenti senza di esse mancherebbe. Ancora una volta chapeau a te per esserci stato comunque, nonostante i tuoi ragionevolissimi, e pienamente condivisibili, dubbi e distanze!
Credo che tu abbia fatto un quadro non pessimista o esageratamente critico, ma semplicemente realista. L’Expo è una fiera e in quanto tale di carattere commerciale, quindi era inutile illudersi che potesse avere anche un risvolto morale, o affrontare temi, tanto per dirne uno, come il land grabbing, se chi ha sborsato più soldi per Expo sono proprio i Paesi che maggiormente lo esercitano. Forse in qualche angolino si parla anche di cose serie ma per il resto… E hai fatto bene a parlare del lavoro volontario: mi son sentita ribollire quando in metro campeggiavano i manifesti che dicevano che lavorare gratis era un’occasione imperdibile.
Ma per sdrammatizzare: non sapevo che ci fosse anche la Nestlè, bella faccia tosta Buona anche quella che con i cibi surgelati risparmi.
ti adoro ti stimo ti condivido, e ti avviserò appena scriverò delle mie giornate in expo incluse le visite ai pad svizzera e germania dove al bar NON danno la ricevuta finché non gliela solleciti più volte!! scriverò questo e le tante porcherie che ci ho trovato, dentro fuori in mezzo, in mezzo per fortuna ad alcune (poche) buone idee. a presto