Cosa ci si porta a casa

Viaggiare è … portarsi a casa un’emozione

Cosa ci si porta a casaSono spesso persa in questi giorni di neve e freddo in ragionamenti che riguardano il viaggio.
Pensavo al fatto che viaggio, di per sé, presuppone un ritorno perché altrimenti uscirebbe dalla sua stessa originale natura. Ritornare spesso si unisce al concetto di “portar con sé“.

Infondo è quello che spesso facciamo tutti: durante i nostri giri, più o meno lunghi, cerchiamo sempre qualcosa da portare con noi.

Personalmente mi ci vorrebbe una borsa solo per i ricordi legati ad un viaggio. Odio i souvernir in quanto tali ma non butterei mai via gli scontrini o ogni minima cosa trovata sul mio cammino.

Ho una serie di carte di caramelle, sottobicchieri e voucher di ogni genere dentro i miei diari di viaggio che se solo venisse un incendio impazzirei. Pensando a cose meno materiali, sto pensando al fatto che il viaggio è spesso una scoperta che poi portiamo con noi.

Per quel che mi riguarda, se non fossi andata nel Regno Unito così tante volte non avrei mai capito che i fagioli al mattino mi piacciono. Se non avessi assaggiato le Aringhe ad Amsterdam non avrei capito che, infondo, potrei trovare una merenda alternativa. Se non fossi andata in Brasile non avrei mai capito che là si mettono la crema solare anche se sono abbronzatissimi.

Goete diceva che non è necessario girare il mondo per capire che il cielo è azzurro ovunque. Io ritengo vero l’esatto contrario.

Ci sono porte che vanno aperte e mondi che vanno esplorati per capire cose che spesso nessuno ci racconta.
Poco importa che quei mondi siano distanti mezz’ora da casa nostra o che ci vogliano 20 ore di volo.

Mondo per mondo, questa è la mia personale lista delle cose che ho scoperto e che mi sono portata a casa.

  • Durante uno dei miei primi viaggi lunghissimi ho capito che la sopressa mi mancava da matti. E’ come se ci fosse sempre bisogno di recuperare un pezzetto delle proprie radici prima o poi.
  • Ho capito che posso viaggiare da sola in un paese di cui non sapevo quasi niente. E questo me l’ha insegnato il Senegal
  • Ho capito che il cielo che più si avvicina al concetto di bellezza totale per me è il cielo del Nord più Nord dell’emisfero Nord.
  • Ho capito che mangiare con le mani è un qualcosa di difficilissimo.
  • In Cina ho capito che il concetto di convivio, del mangiare assieme è più orientale di quanto si possa immaginare
  • Negli Stati Uniti ho capito quanto piccola mi posso sentire
  • Nel Regno Unito ho capito come funzionano realmente i trasporti pubblici
  • Sempre nella perfida Albione ho capito che i treni, in certe zone del mondo, non puzzano
  • Ovunque ho capito che noi Italiani siamo spesso, troppo spesso, quelli di Pizza e Mandolino
  • Ho capito che sembro più teutonica che italiana
  • In Messico ho capito che il peperoncino, il lime e l’alcool (moderato) servono a mantenere l’intestino sano
  • In Brasile ho capito che riesco a farmi la doccia e lavarmi i vestiti nello stesso modo

Potrei andare avanti fino a domani a raccontarvi quante cose ho capito (e quante ancora ne ho da capire).

Mi piacerebbe trovare qui sotto, nei commenti, qualcuna delle vostre liste.
Perché infondo qui siamo tra viaggiatori e tutti noi siamo qui con uno zaino in spalla, un borsone a tracolla o un trolley da portar con sé.

Per ognuno dei nostri viaggi passati, dentro quei bagali abbiamo messo kili di vestiti e di oggetti vari. Abbiamo anche inserito miliardi di ricordi immateriali ma che a loro modo sono perpetui.

Trattasi di tutti quei tasselli emozionali che arricchiscono la nostra esperienza e ci fanno sussultare appena leggiamo di qualcuno che ha visitato la stessa zona dove siamo andati noi. E’ lo stesso entusiasmo che ci fa sorridere nostalgicamente quando qualcuno ci racconta un viaggio nel momento in cui noi, magari, non possiamo partire.

Wordsworth diceva che la poesia non è altro che un’emozione raccolta nella tranquillità. Rivissuta e raccontata. Per me questa è la definizione esatta del viaggio. Emozioni vissute sulla propria pelle, lasciate decantare e poi … semplicemente … raccontate.

Il Sei Nazioni di Rugby

Il mio personale addio all’inverno è già iniziato. Ma come, direte voi? Semplice, vi rispondo io. Per me l’inverno non finisce il 21 Marzo (o 23, a seconda delle teorie) bensì termina categoricamente con l’inizio del Sei Nazioni. Poco male che fuori ci siano temperature glaciali, neve e gelo. Dentro il mio cuore i germogli cominciano già … Continua

Il sottile fascino del confine

Sto leggendo un libro che sta contribuendo al totale lavoro degli ingranaggi dentro la mia testa. Questo testo ha fatto sì che io cominciassi a ragionare sui confini.

Se c’è una parola, infatti, che ha sempre solleticato la mia fantasia e il mio viaggiare, quella parola può essere soltanto “Confine“.

Chiamatelo Border o Grenze che dir si voglia  ma un confine resta pur sempre una linea, più o meno umana, tracciata da qualche parte: una strada, una carta geografica, dentro la nostra mente.

Quando ero piccola e sono stata portata all’estero per la prima volta, sommersi mio padre di domande sulla faccenda del confine.

Ma cosa si vede al confine? Com’è segnato il confine?

Ai tempi, ormai millenni fa, c’erano le gran dogane con i gran doganieri che fermavano tutti con fare perentorio e contribuivano al formarsi delle file dei vacanzieri più o meno pazienti. Mi piaceva passare davanti al doganiere e osservarlo dal finestrino posteriore con un po’ di timore nel cuore.

Benché fossi bimba, riconoscevo il lui un’autorità immensa: quella del sancire il passaggio da una nazione all’altra. Erano mica bruscolini, vero? Dentro di me il passaggio da una nazione all’altra era visualizzabile sono un gran spazio aperto che si legava al concetto di terra di nessuno. Questo concetto si rivoluzionò totalmente e la certezza mi crollò quando mi trasferii per lavoro in Svizzera.

Tra la Svizzera e l’Italia non c’era neanche mezzo millimetro di spazio se non, ma ne ebbi la certezza solo molti anni dopo, per quando riguarda i remotissimi confini montani e/o dispersi da qualche parte. Vivendo lì saltavo di qua e di là del confine con una facilità che non avevo neanche quando ero piccola e giocavo ad elastico (mai giocato ad elastico?) con le mie amiche. Mi piaceva transitare liberamente ma amavo ugualmente la presenza a mo’ di segnalibro di quei doganieri fermi, decisi, imponenti anche se non ero più una bimba.

E del confine mi è rimasto dentro questo: un gran senso di solennità e la capacità di mescolare le situazioni. In prossimità dei confini hai un po’ della nazione che ti porti dientro e altro della nazione che hai davanti. Mettendosi in modo immaginario a cavalcioni sulla linea che separa due realtà si acquisisce le caratteristiche di quello che ci circonda, indistintamente. Il confine è stato protagonista di storie indimenticabili, bellissime e anche crudeli. Storie che, a loro modo, possiamo riscontrare in tutte le culture del mondo. Il confine è stato spesso motivo di contesa, di guerra, di pace, di matrimonio e di tradimento.

Il confine è una linea percorribile e transitabile. Esso è parte della materia stessa del viaggio.
Il confine non è una linea che divide. E’ ciò che salda insieme il mondo e ci permette di visitarlo.

Le terre di confine sono magiche perché racchiudono in loro la diversità di ciò che uniscono. Se non ci avete mai pensato prima, considerate e inventate un vostro prossimo viaggio seguendo una linea di confine.

Lasciatevi conquistare dal suo fascino sottile ed infitino, come una linea che non ha capo e non ha fine.

Giochi da viaggiatori

Ci pensavo ieri sera. C’era un gioco che era stato inventato da amici e che mi piaceva tanto. Mi piaceva così tanto che praticamente l’ho vinto.

Erano quegli amici un po’ più grandi di me. Quelli con cui ti trovavi alle feste ma che non erano propriamente la tua compagnia. Quelli che però quando ci parlavi ti trovavano interessante e forse un po’ più grande dei tuoi coetanei. Quelli che come te, e a differenza di molti tuoi “compari”, viaggiavano e vagavano per il mondo da molto, in cerca di chissà che cosa.

Quegli amici si erano inventati un gioco. Quel gioco riguardava il mondo e la capacità di visitarlo. Fu così che una sera, una di quelle d’autunno in cui cominci ad uscire con la giacca anziché solo con la felpa, ci si riunì nella taverna di uno e si prese una mappa del mondo ben dettagliata.

Il mondo fu diviso a zone e ad ognuna di esse corrispondeva un punteggio … che ne so… all’Europa 1 perché era vicina, alle Americhe 3 perché i voli erano lunghi.
All’Asia 5 perché era lontana e all’Oceania … beh… 10 perché era ultradistante.

Ogni stato poi aveva un punteggio a sé a seconda della “visitabilità”. Quelli più facili da raggiungere o quelli più “scontati” avevano un punteggio basso. Gli altri via via salivano. Poi è stato dato un punteggio ad alcune città … non tutte però perché creando un gioco così ti rendi conto che il mondo è immenso.

Anche qui vigeva la stessa logica … a Parigi ci vanno tutti quindi vale 1 ma Lille ad esempio vale 5 perché nessuno dice che va a Lille.
Finite le città si è creato un ulteriore livello: se incontravi uno del tuo comune in un dato luogo, i punti raddoppiavano. Più remoto era il luogo, più punti si facevano.

Al gioco però mancava qualcosa … non si erano ancora stabiliti i jolly. O sarebbe meglio definirli Assi piglia tutto.

Già … perché il mondo porta in grembo dei luoghi che potrebbero essere vicinissimi e che mai nessuno, o pochi, considerano. Questi luoghi sono il Lichtenstein, il Lesotho, Andorra, Vladivostock e l’ Antartide. Poco importava quanto avessi viaggiato (ma dovevi averlo fatto) o che cosa avessi fatto o quanti punti avessi. Chi raggiungeva una di quelle mete avrebbe messo a tacere tutti gli altri e vinto, seppur idealmente, quel gioco per immensi viaggiatori.

La cosa bella era ritrovarsi alla fine dell’estate o alla fine dell’anno e confrontarsi per vedere quanti punti avevamo guadagnato.
Lo si faceva con una buona pizza assieme e una birra in compagnia. Erano momenti social più social di qualsiasi piattaforma al mondo. E per questo non hanno prezzo.

Poi arrivò quel giorno in cui io e una mia omonima (nomen omen… mai più vero di così) eravamo in testa al gioco a pari punti e avevamo staccato tutti. Lei aveva scelto la versione asiatica. Io quella delle Americhe. Dopo questo giorno ne arrivò un altro, in pieno inverno, quando la sottoscritta decise di prendere la sua macchinina e andare in Baviera con delle amiche.

Al tempo vivevo in Svizzera e che cosa c’è tra Svizzera, Austria e Germania? Il Liechtenstein!
Il mio cervello non ci mise più di un secondo a formulare l’idea di parcheggiare a Vaduz, farsi un giro e una bella foto a testimone del fatto che fossi lì. Feci di meglio; mi aggrappai al cartello “Liechtenstein” e mi feci fare una foto. Col cellulare la mandai ad un amico, partecipante al gioco. Lui rispose semplicemente “Mitica bastarda 🙂 … hai vinto!

Vinsi io ed il gioco finì. Ma sarei pronta a ricominciare anche da subito.

Liverpool: il fish and chips da non perdere

L’altro giorno ho letto un post che mi ha fatto ripensare a Liverpool e alla sua bellezza.

Non so se vi è mai capitato di saltare di palo in frasca con i pensieri ma di restare sempre dentro l’argomento da cui siete partiti. Pensare alla bellezza di Liverpool mi ha fatto pensare alla bontà di Liverpool.

Fin qui tutto bene … o meglio … tutto bene dentro la mia testa. Quello che c’è da dire è che nel linguaggio delle mie celluline grigie “bontà di Liverpool” si dice solo ed essenzialmente Lobster Pot.

Tra le gioie maggiori della cucina inglese possiamo assolutamente annoverare il mitico Fish & Chips. L’Imperatore  del mangiare easy in quel del Merseyside si chiama senza dubbio il Lobster Pot, sito in Paradise Street a Liverpool.

Ogni volta che torno nella città dei Fab Four me ne innamoro sempre di più e mai smetterò di farlo (di andarci innanzitutto). Il problema (se questo è un problema) è che mi innamoro sempre più del Lobster Pot.

Comincia a diventare una necessità alla quale obbedire. Dai… lo so che non è il massimo per il fegato … ma una volta si può fare, no? E se non si prova il Fish & Chips in England … dove lo si prova?

Attenuanti e scusanti a parte, prendete un giorno con le tipiche condizioni meteo del Merseyside, aggiungete kilometri macinati su e giù per il centro e non, non dimenticate poi di prendere almeno due autobus e, non ultimo, mai tralasciare un giro in prossimità dell’Albert Dock. Dopo tanti giri la fame arriva ineluttabile e quindi, perché non cercare il Lobster Pot

Trovarlo è facilissimo; la sede di Paradise Street altro non è che la succursale dell’originaria sede di Renelagh street. Quest’ultima molto vicina a Liverpool Central.

Insomma… non siete stati a Liverpool se non avete mangiato e gustato PER INTERO (e non a caso lo scrivo in lettere maiuscole) uno splendido Fish & Chip made in Lobster Pot (Cod o Haddock, scegliete voi).

Disclaimer, non tanto trascurabile: le porzioni sono … come dire … immense. La qualità, malgrado il posto non sia niente di più che un fast take away, è eccelsa. Il prezzo è la cosa migliore. Una bottiglietta d’acqua e un fish & chips very huge arrivano a circa 5£. Praticamente il miglior rapporto qualità prezzo di Liverpool. Una volta recuperata al banco la vostra porzione (rispettate la fila!!) vi chiederete e proprio non con voce sommessa “ma ce la farò?”

Io vi dico solo provare per credere. Non preoccupatevi di puzzare di fritto uscendo di lì. A Liverpool c’è sempre vento. Vi basterà gironzolare una mezz’oretta e tornerete profumati di buono.

Un fish & chips del Lobster Pot mi fa sentire parte di un universo perfetto. > Dove dormire a Liverpool

 

CAMRA: molto più che una semplice birra

Se c’è una cosa che ho imparato viaggiando, è che le migliori informazioni e, se vogliamo, le più utili si nascondo dove meno ce lo aspettiamo.

Opuscoli, pdf ritrovabili in rete o semplicente un pieghevole recuperato chissà dove possono regalarci indicazioni preziose per itinerari insoliti.

Vi scrivo questo perché, l’estate scorsa, mentre preparavo un viaggio tra Galles del Nord e Yorkshire mi sono messa a scandagliare il sito della più importante associazione del Regno Unito legata al mondo della birra.

Affinché non mi prendiate per una ubriacona, vi dico che feci questo perché avevo voglia di scoprire quali fossero i migliori pub di York.  Sull’argomento la mia guida, seppur quotatissima e aggiornata, lasciava alquanto a desiderare. Sicché mi sono ricordata di quest’associazione a dir poco fondamentale dallo stranissimo nome di CAMRA.

CAMRA sta per CAMpaing for the Real Ale … una vera propria campagna che gli inglesi e non solo hanno portato avanti per un bel po’ affinché si ricominciasse a dare il giusto peso a birrifici locali o microbirrifici pienamente orgogliosi della loro produzione.

Il popolo britannico ha creato una vera e propria associazione non governativa che si occupi di promulgare il “bere bene” e il “bere local”. Un po’ come la nostrana Slow Food, volta però al mondo della produzione di birra di gran qualità e gusto.

In Inghilterra stava succedendo quello che da noi è ormai, fortunatamente non ovunque, un dato di fatto: le grandi multinazionali della birra acquistano gloriosi marchi nazionali e distribuiscono à go-go ogni birra di ogni tipo, sradicandola dalla propria realtà locale. A fare le spese di queste scelte commerciali erano le piccole realtà locali che non trovavano più posto sui banchi di ogni pub della Gran Bretagna.

Oltre a ciò, anche il gusto di una birra ricavata secondo regole antiche e preziose veniva sacrificato al mercato del “tutto e subito” oppure del “veloce è meglio”.

Ora questo pericolo è scampato perché la CAMRA è una realtà assodata e un’associazione dalla distribuzione capillare.

Se programmate un viaggio in Inghilterra, in Galles o in Scozia andate a cercarvi qualcosa sui siti locali delle zone che andrete a vedere. Vi suggeriranno itinerari cittadini, pub da vedere e luoghi immancabili in quanto a servizio e cibo locale.
In poche parole, vi daranno quelle dritte che solo i locali ben inseriti in quelle comunità potrebbero darvi.

Per quanto riguarda la mia personale esperienza, vi posso dire che le “pub-map” di York e di Liverpool sono davvero un qualcosa di totalmente fondamentale per capire al meglio l’anima di quelle due città.

Vi ricordo infine una piccola e grande verità: il bello di una birra locale gustata alla giusta temperatura e nel giusto luogo non sta nella quantità che riuscireste a bere bensì nella qualità che percepirete ad ogni piccolo sorso.

La birra è, anche, un’esperienza culturale.

Il Viaggio ai tempi dello Spread

Certo, i tempi non sono dei più semplici.

Negli ultimi giorni siamo stati tempestati da messaggi di ogni tipo: spread di qua, spread di là, gente che festeggia a Cortina, gente che mangia caviale e persone in pieno bisogno di ogni cosa.

Sembra che la via di mezzo non esista e quel che afferma pienamente la sua esistenza è una domanda che, probabilmente, affliggerà gran parte degli Italiani: come faremo ad andare in ferie quest’anno? Come si fa a viaggiare ai tempi dello spread?

Io, sinceramente, ci penso un bel po’ … sarà perché i viaggi sono sempre dentro le mia testolina e sarà perché aver davanti la prospettiva di un po’ di stacco dalla solita vita fa sempre tanto bene.

In periodi un po’ oscuri come quelli stiamo vivendo, centellinare ogni singolo euro potrebbe diventare unaa nuova disciplina olimpica.

Ma se la voglia di partire preme, cosa si fa? Ecco le mie personali linee guida:

  • Programmazione ed Organizzazione siete le mie migliori amiche: anticipate … anticipate tutto, dalla lettura della guida allo scandaglio totale della carta geografica per definire un itinerario. Eravate abituati ad organizzarvi in Giugno? Bene, cominciate a Marzo.
  • Non abbiate paura del fai da te: siate i vostri propri agenti di viaggio. Ormai siamo tutti in possesso di un pc e la rete offre risorse immense. La cosa importante è tenere gli occhi aperti e affidarvi a siti sicuri, conosciuti, ben commentati.
  • Enti Nazionali di promozione turistica, per dirla in inglese Official Tourist Boards. Spesso siamo soliti a non dare importanza a siti ufficiali ma per moltissime nazioni (europee, ad esempio) quei siti sono una risorsa immensa e preziosissima. Vi si possono trovare alberghi, b&b, ristoranti e itinerari con un tono di ufficialità in più. Questi siti, inoltre, offrono la spedizione gratuita (alcuni anche direttamente il download) di materiale relativo alla nazione che ci interessa e di brochure a dir poco fantastiche. Contattateli, fatevi mandare ciò che potrebbe interessarvi.
  • Abbiate un occhio di riguardo per quei siti che propongo la comparazione di prezzi di alberghi ma soprattutto quelli che comparano le offerte relative ai voli. Se Kayak fosse una persona, io gli offrirei una cena ogni settimane.
  • Dopo aver studiato prezzi e luoghi, definite un budget secondo le vostre possibilità non dimenticando di aggiungere ad esso i prezzi per musei o cose da visitare. Molti spesso li considerano extra e restano fregati da un conteggio non completo. Una volta definito il budget dividetelo per i mesi che vi mancano alle vacanze. Al risultato aggiungete almeno una trentina di euro come “garanzia-perché-non-si-sa-mai-cosa-succede” e saprete quanto circa dovrete risparmiare mensilmente.
  • Diluite le prenotazioni nei mesi che vi separano dalle vacanze. Ad esempio prenotate il volo a febbraio, i primi hotel a marzo, i musei ad aprile e così via. Questo vi permetterà di decurtare i vostri risparmi a cifre più piccole rispetto a prenotazioni fatte tutte nello stesso mese.
  • Riscoprite la bellezza dei mezzi pubblici. Ok … lo so, in Italia l’uso del mezzo pubblico è alquanto difficile ma in altri paesi proprio non lo è. Esistono moltissime forme di abbonamenti da poter fare durante l’estate e non. Sono molto convenienti rispetto ad un noleggio auto ed in più si contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente.
  • Immaginate voi stessi come delle persone locali: comprate al supermercato del posto dove volete andare, mangiate ciò che di tipico e autoctono c’è in quelle zone. I prezzi saranno minori e la qualità, probabilmente, alta. Inutile cercare la mozzarella alle Lofoten, no? Non sempre c’è bisogno di ristoranti a pranzo e cena. Un sandwich consumato sull’alto di una scogliera a strapiombo sul regala emozioni inaspettate.

Un viaggio è un grandissimo puzzle fatto di mille emozioni e per molti è come acqua fresca in un giorno torrido d’estate. Un viaggio è un diritto pieno della nostra anima, è nutrimento per noi e per chi ci sta attorno. Ed è proprio in tempi difficili che si ha bisogno di quel piccolo grande stacco che ci farà dimenticare, seppur per poco, quel dannato e pesantissimo spread. Believe me!

Porto de Galinhas, Brasile

Il racconto di viaggio di Giovy che nel 1998, visita per la prima volta il Brasile: un viaggio ed un’avventura raccontata in modo piacevole e coinvolgente…

Avevo 20 anni, tondi tondi perchè era il 1998. Lavoravo dall’ottobre prima ed ero fortunata perchè a 20 anni avevo già tra le mani un contratto a tempo indeterminato e potevo permettermi 3 settimane di ferie per volare dall’altra parte del mondo: in Brasile. O meglio, a Recife, nel Pernambuco … pieno Nord-Est brasileiro, posto fatto di contraddizioni eterne. Mi ricordo il volo lunghissimo, via Bruxelles e ricordo pienamente l’odore acre dell’aria quando uscii dall’aeroporto assieme alle altre 5 persone che viaggiavano con me.

Ci venne a prendere Antonio, un nostro amico che si era preso un anno sabbatico e che faceva volontariato nel Barrio do Pina, nella Favelas do Bode presso un centro fondato da due suore con un coraggio grande come il mondo. Quell’estate, per quelle tre settimane, io mi occupai di seguire alcuni meninhos de rua del centro di Recife. Attraversavo la favela tutti i giorni e, momento dopo momento, i sorrisi verso di me aumentavano e il fruttivendolo mi lanciava una Guajava tutte le mattine.

Il primo giorno ero timorosa, l’ultimo piangevo per non andare via. Quei giorni vissuti nell’ultimo luogo che ognuno spererebbe per chiunque, venivano intervallati da week end di decompressione perché altrimenti impazzivamo. Quando si affrontano certe esperienze, è necessario darsi una tregua senza sentirsi in colpa perché noi non siamo abituati a tutta quella vita difficile ed restarci dentro troppo ci annulla al punto di non essere più utili alla causa che ci ha fatto volare dall’altra parte del mondo. Per questo, senza colpe, è necessario garantirsi una decompressione… perché il nostro carattere è cedevole.

La mia prima pausa… e quella dei miei compagni di viaggio si chiamò Porto de Galinhas, un luogo a sud di Recife, che raggiungemmo con un pullman scalcagnato. Nel 1998 era ancora genuino, piccolo, con poche posadas e tanti pescatori.
Ora ho idea che sia  un po’ più turistico … ma mi piace pensare che la sua essenza sia ancora quella di 13 anni fa.

Il nome di quel luogo si deve all’epoca coloniale quando gli schiavi arrivavano copiosi in tutte le Americhe.
In Brasile la schiavitù venne abolita nel 1888 e, malgrado questo, gli schiavi continuavano ad arrivare con il nome in codice di “Galline dall’Angola”. Gli schiavisti mandavano missive ad Olinda o Recife dicendo “stanno arrivano le galline dall’Angola”.
E molto, di quell’epoca, è rimasto nel piccolissimo centro storico di quel luogo nordestino.
C’è la piazza dove gli schiavi venivano venduti e tutti gli aggeggi ai quali venivano legati. Ci sono le fazende, lì vicino, e ci sono le case signorili. Io le fotografavo pensando, nell’ingenuità dei miei vent’anni, a quanto il Brasile non fosse cambiato.
Infondo si era solo modernizzato. I nuovi schiavi erano incatenati ad una società impari e difficile, ad un destino avverso nel caso si nascesse nella parte sbagliata della città.
No, non dovevo fare quei pensieri quel giorno… era il mio momento di decompressione… no Giovy… basta, non devi.
Invece continuavo e nella mia mente girava a loop una frase di Frei Betto, persona splendida che ebbi la fortuna di sentire in una conferenza a Recife qualche giorno prima: egli affermava che il Sud America altro non era che lo specchio del mondo che sarebbe venuto di lì a poco tempo, con una separazione ampia tra i ricchi e i normali… che a lungo andare sarebbero diventati i nuovi poveri.